Le risoluzioni consensuali non sono computate per il licenziamento collettivo

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15118 del 31 maggio 2021, ha escluso che le risoluzioni consensuali debbano essere computate nel numero dei recessi da prendere in considerazione ai fini della verifica circa la necessità di avviare la procedura di licenziamento collettivo.

Si ricorda, in proposito, che ai sensi dell’art. 24 della L. n. 223/1991, le norme sui licenziamenti collettivi si applicano alle imprese che occupino più di quindici dipendenti, compresi i dirigenti, e che, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intendano effettuare almeno cinque licenziamenti, nell’arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva, o in più unità produttive nell’ambito del territorio di una stessa provincia.

Nel caso che ha dato origine al giudizio, la lavoratrice era stata licenziata per giustificato motivo oggettivo. Nei mesi successivi il datore aveva comminato un ulteriore licenziamento e, a seguito di procedure avviate ex art. 7 della L. 604/1966, aveva risolto consensualmente il rapporto di lavoro con altri dipendenti, raggiungendo un numero complessivo di nove recessi nel semestre. Secondo la lavoratrice, pertanto, il proprio licenziamento doveva essere dichiarato illegittimo perché la società avrebbe dovuto attivare la procedura di licenziamento collettivo. Per costante giurisprudenza, le risoluzioni consensuali, anche incentivate, sono state infatti incluse nel novero complessivo dei recessi che rendono necessario l’avvio della procedura di riduzione del personale.

La sentenza in esame, ha ritenuto che nel numero minimo di cinque licenziamenti non possono includersi altre differenti ipotesi risolutorie del rapporto di lavoro, ancorché riferibili all’iniziativa del datore di lavoro. Secondo la Corte, in particolare, l’espressione “intenda licenziare” di cui alla L. n. 223 del 1991, articolo 24 è una chiara manifestazione della volontà di recesso, pur necessariamente ancorata al fatto che i licenziamenti non possono essere intimati se non successivamente all’iter procedimentale di legge, mentre cosa ben diversa è l’espressione “deve dichiarare l’intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo ai sensi della novellata L. n. 604 del 1966, articolo 7”, che è invece imposta al fine di intraprendere la procedura di conciliazione dinanzi alla DTL (ora ITL), e non può quindi ritenersi di per sé un licenziamento. Ha poi osservato la Corte che alla luce di una corretta interpretazione dell’articolo 1, paragrafo 1, comma 1, lettera a) della Direttiva 98/59/CE del Consiglio del 20 luglio 1998, rientra nella nozione di “licenziamento” il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente ed a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso, da cui consegua la cessazione del contratto di lavoro, anche su richiesta del lavoratore medesimo (Corte di Giustizia UE 11 novembre 2015 in causa C-422/14, p.ti da 50 a 54). Per questi motivi, pertanto, secondo la pronuncia in esame, l’intenzione di recedere che il datore deve comunicare ai sensi dell’art. 7 della L. 604/1966 non deve essere equiparata ad un vero e proprio licenziamento.