Illegittima l’adibizione della lavoratrice a mansioni inferiori al rientro dalla maternità
La Corte di Cassazione con l’ordinanza 20253 del 15 luglio 2021 ha affermato che l’adibizione della lavoratrice, rientrata dalla maternità, a mansioni inferiori rispetto a quelle svolte prima del congedo integra un demansionamento per violazione dell’art. 2103 c.c.
Una lavoratrice ricorreva giudizialmente al fine di ottenere le differenze retributive ed il risarcimento del danno derivanti dalla sua adibizione, al rientro della maternità, a mansioni dequalificanti.
La Corte d’Appello accoglieva la predetta domanda, escludendo, però, la natura discriminatoria del comportamento datoriale per difetto di prova.
La Cassazione – nel confermare la statuizione della Corte d’Appello – ha rilevato, preliminarmente, che il divieto di variazione peggiorativa, sancito dall’art. 2103 c.c., esclude che al dipendente possano essere affidate, anche se soltanto secondo un criterio di equivalenza formale, mansioni sostanzialmente inferiori a quelle in precedenza disimpegnate.
Secondo i Giudici di legittimità, infatti, quando il lavoratore allega un demansionamento riconducibile ad un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore ai sensi dell’art. 2103 c.c., è proprio sull’imprenditore che incombe l’onere di provare il rispetto della norma o attraverso la prova della mancanza in concreto della dequalificazione ovvero attraverso la prova della sua giustificazione per il legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari.
Su tali presupposti, la Suprema Corte – non ritenendo assolto detto onere probatorio – rigetta il ricorso della società e condanna la stessa al risarcimento del danno per il demansionamento subito dalla dipendente al rientro dalla maternità.