Al datore la prova dell’impossibilità di repechage
La Corte di Cassazione con ordinanza 33341 del 11 novembre 2022 ha statuito che spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di “repechage” del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili.
Nella vicenda in esame, gli Ermellini hanno condiviso la decisione con cui la Corte d’appello aveva confermato la illegittimità di un recesso per GMO sotto il profilo del mancato adempimento dell’onere della prova circa l’impossibilità di ricollocare il dipendente licenziato in una diversa posizione.
Sul datore di lavoro, in sostanza, incombe la dimostrazione del fatto negativo costituito dall’impossibile ricollocamento del lavoratore che può essere data con la prova di uno specifico fatto positivo contrario o mediante presunzioni dalle quali possa desumersi quel fatto negativo.
Secondo i giudici di piazza Cavour, la Corte territoriale aveva fatto corretta applicazione dei principi sopra richiamati, avendo verificato che gli elementi di valutazione dai quali la società datrice di lavoro avrebbe voluto far derivare l’impossibilità di adibire altrimenti il lavoratore (flessione del numero di dipendenti, assenza di posizioni idonee per il reimpiego, estinzione di numerosi appalti, cospicuo ridimensionamento delle attività e del personale, pur complessivamente considerati, non consentivano di escludere che vi fossero posizioni utili alle quali assegnare il lavoratore invece che licenziarlo.
L’apprezzamento del materiale probatorio era stato eseguito in adesione ai menzionati principi e risultava, perciò, non censurabile in sede di legittimità, se non sotto il profilo del vizio di motivazione.
Nell’ordinanza, il Collegio di legittimità ha fornito un’ulteriore ed utile precisazione: a fronte dell’accertata violazione dell’obbligo di repechage si deve disporre la reintegrazione del lavoratore.