Mobbing a lavoro: risarcimento se si prova il danno e il nesso causale
Il Tribunale di Cosenza con sentenza 557 del 29 marzo 2023 ha respinto la domanda avanzata da una lavoratrice al fine di ottenere il risarcimento dei danni biologico e morale asseritamente sofferti, in quanto diretta conseguenza di una condotta mobbizzante posta in essere dal datore di lavoro con intento vessatorio.
La ricorrente, in particolare, lamentava di essere stata obbligata, in ragione del mobbing subito, a un surplus lavorativo che l’aveva portata a soffrire di violenti attacchi di panico.
Da qui l’asserita responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. per averle assegnato attività incompatibile con il proprio stato di salute (sindrome ansioso depressiva reattiva), con conseguente lesione dell’integrità psico fisica della medesima.
Il Tribunale del lavoro, come anticipato, ha ritenuto che il ricorso della lavoratrice non poteva trovare accoglimento: la stessa, nell’atto introduttivo del giudizio, aveva allegato solo genericamente l’insorgenza di uno stato di profondo malessere psico – fisico derivato dalla asserita condotta vessatoria.
La certificazione medica allegata, infatti, non indicava alcuna “possibile o verosimile” origine della patologia e nulla poteva ricavarsi quanto al dedotto nesso eziologico tra la sindrome depressiva ansiosa reattiva e la condotta datoriale denunciata.
Mancavano, quindi, idonei riscontri probatori per affermare la sussistenza di una fattispecie di mobbing.
Il dipendente – ha spiegato l’organo giudicate – deve fornire la prova dell’esistenza del danno lamentato e del nesso di causalità con l’inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere a una valutazione equitativa.
Il danno, infatti, non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria.
Non basta dimostrare, ossia, la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo al lavoratore che denunzi il danno subito l’onere di fornire la prova in base alla regola generale di cui all’art. 2697 c.c.