Società cooperativa-crisi societaria e riverbero sullo stipendio del socio lavoratore

La società Sigma, società cooperativa  attiva nel settore del wedding da circa dieci anni, a causa della riduzione del fatturato dipendente dalla crisi pandemica, con una deliberazione interna datata luglio 2021, dispone la riduzione della retribuzione alla dipendente Tizietta. La stessa Tizietta dunque, chiede delucidazioni in merito al professionista di riferimento ai fini della annullabilità o nullità della predetta delibera stante l’incidenza della stessa riduzione al sotto dei minimi sanciti dalla contrattazione collettiva di settore.

CONTESTO NORMATIVO

Come noto, le cooperative, secondo il tenore letterale del nostro codice civile, sono società a capitale variabile con scopo mutualistico.

Secondo il codice civile italiano, una società cooperativa è una società costituita per gestire in comune un’impresa che si prefigge lo scopo di fornire innanzitutto agli stessi soci, attraverso lo scopo mutualistico, quei beni o servizi per il conseguimento dei quali la cooperativa è sorta.

Con il D.M. 23 giugno 2004, pubblicato nella G.U. n. 162/2004 è stato istituito l’Albo delle società cooperative e, a seguito della riforma dell’articolo 2511 cod. civ., intervenuta con la L. 99/2009, tutte queste organizzazioni devono iscriversi presso detto Albo, poiché l’iscrizione ha assunto valore costitutivo della relativa qualifica di società cooperativa.  

All’interno di questa grande categoria, a cui sempre più si ricorre nella realtà odierna, esse possono essere distinte, da un lato, in relazione all’oggetto, pertanto potremmo trovare cooperative agricole, edilizie, di produzione e lavoro, di consumo nonché di credito; dall’altro, in relazione alla mutualità: vi sono, infatti, quelle a mutualità prevalente e quelle non a mutualità prevalente, a seconda che usufruiscano o meno delle agevolazioni fiscali previste dalla Legge.

Per quanto riguarda la posizione dei soci  fino all’intervento legislativo del 2001, al socio lavoratore non erano riconosciuti gli stessi diritti dei lavoratori subordinati e, prima ancora che intervenisse la normazione, si deve a dottrina e giurisprudenza l’attribuzione di una doppia posizione al socio lavoratore, grazie anche all’orientamento – costante in tal senso – della Corte di Cassazione.

Con l’entrata in vigore della L. 142/2001, la duplice posizione in commento è stata finalmente sancita; ne discende che, al momento dell’ingresso in una società cooperativa, si stabiliscono 2 distinti rapporti: uno lavorativo, al quale andranno applicate le norme dello Statuto dei lavoratori, ad eccezione dell’articolo 18, e il tutto resterà regolato dalle norme di diritto del lavoro; e uno di tipo associativo, che sarà regolato dalle norme di diritto societario.

Pertanto, oggi è pacifico che il socio, qualora instauri anche un rapporto di lavoro con la cooperativa, sia il soggetto destinatario dei medesimi diritti e obblighi che fanno capo agli altri lavoratori. Infatti, maturerà il diritto alla tredicesima, alla retribuzione mensile, a richiedere il part-time, all’indennità di mobilità nonché alla NASpI in caso di perdita involontaria del posto di lavoro; viceversa, sarà assoggettabile alle norme concernenti i licenziamenti collettivi e sarà tenuto a rispettare l’orario di lavoro.

Per quanto riguarda il trattamento economico, nel fisiologico andamento del rapporto, il socio riceve una retribuzione in tutto paragonabile a quella del lavoratore ordinario, ma la presenza dello scopo mutualistico interviene autorizzando modifiche che misurano le ripercussioni reciproche tra i due rapporti di cui egli è parte.

 La disciplina del trattamento economico del socio di cooperativa, con contratto di lavoro subordinato, si compone di tre principali disposizioni; la prima, contenuta all’art. 3, comma 1, prevede che il trattamento economico complessivo dovrà essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato, e comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine: un andamento per così dire “orizzontale” che ricalca lo schema del lavoro “ordinario”; nella stessa logica, ma con una direzione “verticale verso l’alto”, si riscontra la previsione di cui all’art. 3, comma 2, che ammette trattamenti economico ulteriori, deliberati dall’assemblea, ed attribuiti a titolo di maggiorazione retributiva (lett. a), oppure di ristorni, se risultanti dal bilancio di esercizio e in misura non superiore al 30% dei trattamenti economici complessivi (lett. b): fin qui, dunque, la distanza dallo schema classico del lavoro privato non appare significativa, riprendendo la distinzione tra soglia minima retributiva, propria del livello contrattuale nazionale, e trattamenti economici ulteriori, rimessi invece alla contrattazione collettiva aziendale o territoriale di secondo livello. Più rilevante quanto disposto dall’art. 6, comma 2, che autorizza ad una variazione “verticale verso il basso” del trattamento economico da parte del regolamento, il quale, nel rispetto del «solo trattamento economico minimo di cui all’art. 3, comma 1» può contenere disposizioni derogatorie in peius.

Il principio che governa la materia retributiva del socio pare dunque essere l’art. 36 Cost., non richiamato espressamente ma traslato direttamente all’in­terno della legge nella formulazione relativa alla proporzionalità, così da divenire non un inutile pleonasmo, ma la conferma che, nel momento in cui il socio instaura con la cooperativa un ulteriore rapporto di lavoro subordinato, anche a quest’ultimo vanno applicate le disposizioni costituzionali circa la giusta retribuzione.

Per quanto concerne la parte retributiva, dunque, le cooperative continueranno ad applicare, nei confronti dei propri soci lavoratori, i parametri della contrattazione collettiva nazionale di riferimento, garantendo il trattamento complessivo nella sua globalità, e ad utilizzare lo strumento regolamentare per determinare eventuali corresponsioni differenziate.

Dall’attività di impresa può scaturire una serie di vantaggi economici che, legati all’esistenza di una realtà mutualistica, necessitano di appositi strumenti per essere ridistribuiti tra i soci.
Dalla partecipazione all’attività sociale vengono direttamente collegate le due ulteriori voci che compongono il trattamento economico del socio, e la cui previsione aggiunge un ulteriore tassello alla “specialità” della fattispecie del lavoro in cooperativa. Dall’attività di impresa può scaturire una serie di vantaggi economici che, legati all’esistenza di una realtà mutualistica, necessitano di appositi strumenti per essere ridistribuiti tra i soci.

Le due forme suppletive di compenso sono previste, rispettivamente, alla lett. a) dell’art. 3 – le c.d. “maggiorazioni” – e alla lett. b) dello stesso articolo – i c.d. “ristorni”.

Le maggiorazioni sono stabilite dall’assemblea dei soci, ma la loro commisurazione è sottratta alla libera determinazione dell’organo societario, per essere rimessa a criteri predefiniti dai contratti collettivi, in linea con la natura retributiva riconosciuta a tali emolumenti, che ne attrae la regolamentazione anche sotto il profilo contributivo e dei privilegi. Doppia la legittimazione che si richiede, però, alla fonte contrattuale che dispone dei criteri circa le modalità di erogazione delle maggiorazioni: da un lato, il consenso sindacale deve provenire da associazioni del movimento cooperativo, per parte datoriale, di rilevanza nazionale, così come, per parte dei lavoratori, le organizzazioni stipulanti devono possedere il crisma della maggiore rappresentatività comparata; dall’altro, la contrattazione può essere di qualsiasi livello, anche territoriale o aziendale, purché sia mantenuta la partecipazione di rappresentanze nazionali alla stipulazione.  L’intervento della contrattazione collettiva mette al riparo da possibili dubbi interpretativi circa la fruibilità pratica di tali maggiorazioni. Infatti, la necessità di parametrare gli altri tipi di retribuzione diversi da quelli di lavoro subordinato a valori correnti e congrui in relazione al tipo, alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, poteva porre il problema di come individuare il parametro quantitativo definito al quale rinviare attraverso le deliberazioni dell’assemblea. Il passaggio dalla contrattazione collettiva appare, in questo senso, necessario, proprio per allontanare le incertezze possibili riguardo l’ammontare di eventuali maggiorazioni.

L’altra forma di compenso suppletivo, i ristorni, sono invece ad esclusiva competenza assembleare, con l’unico vincolo di non superare il 30% della retribuzione di base e del trattamento eventualmente riconosciuto ai sensi dello stesso art. 3, lett. a). Le somme così erogate concorrono alla formazione di quel vantaggio mutualistico che sta alla base della cooperativa: la condizione di maggior favore, rispetto al mercato, nelle cooperative di produzione e lavoro si traduce nella previsione di una retribuzione maggiore di quella offerta dall’impiego ordinario, mediante somme aggiuntive che possono derivare direttamente, attraverso la corresponsione di «retribuzioni pari al provento netto dell’impresa», oppure, in maniera indiretta, «corrispondendo ai soci retribuzioni pari a quelle correnti per la generalità dei lavoratori e solo successivamente, in relazione all’andamento dei costi e dei ricavi, corrispondendo ai soci le differenze tra le retribuzioni già corrisposte e i ricavi».

L’assemblea inoltre ha la  facoltà di deliberare, all’occorrenza, un piano di crisi aziendale, nel quale siano salvaguardati, per quanto possibile, i livelli occupazionali e siano altresì previsti: la possibilità di riduzione temporanea dei trattamenti economici integrativi di cui al comma 2, lett. b), dell’art. 3; il divieto, per l’intera durata del piano, di distribuzione di eventuali utili;

e) l’attribuzione all’assemblea della facoltà di deliberare, nell’ambito del piano di crisi aziendale di cui alla lett. d), forme di apporto anche economico, da parte dei soci lavoratori, alla soluzione della crisi, in proporzione alle disponibilità e capacità finanziarie.

Il successivo comma 2 della norma fa salve le disposizioni appena riportate e, al contempo, stabilisce che il regolamento non può contenere altre disposizioni derogatorie in pejus rispetto ai trattamenti retributivi e alle condizioni di lavoro previsti dai Ccnl di cui all’articolo 3, stabilendo che, nel caso in cui si violi la disposizione di cui al primo periodo, la clausola è nulla.

IMPLICAZIONI

Nella vicenda oggetto di approfondimento, a causa della riduzione del fatturato dipendente dalla crisi pandemica, con una deliberazione interna datata luglio 2021, la cooperativa dispone la riduzione della retribuzione alla dipendente Tizietta.  

A tal proposito  la Suprema Corte  ha specificato che  anche nel caso in cui una società cooperativa deliberi uno stato di crisi che comporti la riduzione della retribuzione dei soci lavoratori al di sotto dei minimi contrattuali fissati dal Ccnl di categoria, ai sensi dell’articolo 6, L. 142/2001, la contribuzione previdenziale deve comunque essere rapportata al c.d. minimale contributivo, di cui  all’articolo 1 D.L. 338/1989, così come convertito in L. 389/1989, e non ai minori importi concretamente erogati. Questo perché la regola del c.d. minimale deriva dal principio di autonomia del rapporto contributivo rispetto alle vicende dell’obbligazione retributiva, ben potendo l’obbligo contributivo essere parametrato a importo superiore a quanto effettivamente corrisposto dal datore di lavoro.

Ancora, la delibera assembleare che prevede la riduzione della retribuzione come apporto del socio alla riduzione della crisi, seppure legittimata dal richiamato articolo 6, L. 142/2001, non rientra, infatti, nelle Leggi, regolamenti, contratti collettivi che individuano la retribuzione minima da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale, né detto articolo contiene alcun riferimento agli obblighi contributivi.

L’art. 6, comma 1, lett. d) e lett. e) prevede che il regolamento interno delle cooperative indicate debba contenere, obbligatoriamente, l’attribuzione all’assemblea della facoltà di deliberare, all’occorrenza, un piano di crisi aziendale, nel quale sia prevista la possibilità di riduzione temporanea dei trattamenti economici integrativi di cui all’art. 3, comma 2, lett. b), ovvero della facoltà di deliberare forme  di apporto, anche economico, da parte dei soci lavoratori, alla soluzione  della crisi, in proporzione alle disponibilità e capacità finanziarie.

L’art. 6, comma 2, della Legge in esame, nello stabilire il principio generale dell’inderogabilità in pejus del trattamento economico minimo previsto dalla contrattazione collettiva di settore, prevede esplicitamente alcune eccezioni, tra cui proprio quelle conseguenti alla deliberazione del piano di crisi aziendale.

La Corte ha rimarcato che il principio secondo cui la retribuzione in favore dei soci delle cooperative di produzione e lavoro per le prestazioni erogate in favore della società, deve essere proporzionata alla qualità e quantità del lavoro svolto e sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa ai soci e alle loro famiglie, ai sensi dell’art. 36 Cost., va coordinato anche alla funzione sociale della cooperazione, ispirata allo scopo di mutualità, dovendo procedersi ad un bilanciamento di interessi che involga anche la tutela dei diritti protetti dall’art.45 Cost.

La Corte in  precedenti decisioni,  ha precisato  che il principio del c.d. minimo retributivo imponibile – secondo cui l’importo della retribuzione da assumere come base di calcolo dei contributi previdenziali non può essere inferiore all’importo di quella che ai lavoratori di un determinato settore sarebbe dovuta in applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali più rappresentative su base nazionale – è applicabile anche alle società cooperative, i cui soci sono equiparati ai lavoratori subordinati ai fini previdenziali, sia nel caso in cui il datore di lavoro paghi di meno la prestazione lavorativa a pieno orario, sia nel caso di prestazione a orario ridotto, poiché tale parificazione corrisponde alla finalità costituzionale di assicurare comunque un minimo di contribuzione dei datori di lavoro al sistema della previdenza sociale.

Pertanto dunque la delibera assembleare che prevede la riduzione della retribuzione come apporto del socio alla riduzione della crisi, seppure legittimata dal richiamato articolo 6, L. 142/2001, non rientra, infatti, nelle Leggi, regolamenti, contratti collettivi che individuano la retribuzione minima da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale, né detto articolo contiene alcun riferimento agli obblighi contributivi.

RISOLUZIONE SECONDO NORMA

Come abbiamo avuto modo di delineare nel corso dell’approfondimento, la dipendente Tizietta subisce una diminuzione della retribuzione deliberata a causa della crisi pandemica.

La Corte in altre precedenti pronunce (cfr. Cass. 18/7/2018 n.19096, Cass. 28/8/2013 n. 19832) ha precisato che in tema di società cooperative, la deliberazione, nell’ambito di un piano di crisi aziendale, di una riduzione temporanea dei trattamenti economici integrativi del socio lavoratore e di forme di apporto anche economico da parte di questi, ex art. art.6, comma 1, lett. d) ed e), della Legge n. 142 del 2001, in deroga al principio generale del divieto di incidenza “in pejus” del trattamento economico minimo previsto dalla contrattazione collettiva, di cui all’art.3 della predetta legge, è condizionata alla necessaria temporaneità dello stato di crisi e, quindi, all’essenziale apposizione di un termine finale ad esso.

La pronuncia in esame, ed in questo risiede un suo aspetto innovativo rispetto a quelle precedenti in relazione alle quali è andata in continuità, è altresì entrata nel merito delle conseguenze di una deliberazione affetta da carenza del requisito di temporaneità della riduzione dei compensi spettanti ai soci al di sotto dei minimi sanciti dalla contrattazione collettiva di settore.

Secondo la consolidata giurisprudenza della Cassazione, in tema di invalidità delle deliberazioni dell’assemblea delle società di capitali si ha un’inversione dei criteri regolatori del diritto negoziale, in quanto per esse vige il principio in virtù del quale la regola generale è quella dell’annullabilità (art. 2377 c.c.). Nell’ambito dell’autonoma disciplina dell’invalidità delle deliberazioni dell’assemblea delle società (per azioni) vi è, dunque, una inversione dei principi comuni (artt. 1418, 1441 cod. civ.) in quanto la regola generale è quella dell’annullabilità (art. 2377 cod. civ.), la previsione della nullità è limitata ai soli casi, disciplinati dall’art. 2379 cod. civ., di impossibilità o illiceità dell’oggetto.

I casi contemplati da tale ultima disposizione, ricorrono quando il contenuto della deliberazione contrasta con norme dettate a tutela degli interessi generali, che trascendono l’interesse del singolo socio, dirette ad impedire deviazioni dallo scopo economico-pratico del rapporto di società, con la conseguenza che la violazione di norme di legge, anche di carattere imperativo, in materia societaria, e la violazione di norme poste a tutela di soci o gruppi di soci (vedi Cass. 15/11/2000 ) comporta la mera annullabilità della delibera (ex plurimis, Cass. 27/7/2005 n. 15721; Cass. 9/4/1999 n. 3457, arg. da Cass. 24/3/2014 n.6882); e ciò in virtù di una regola diretta a bilanciare l’interesse alla gestione ordinata dell’impresa sociale e l’esigenza di stabilità (e rapidità) delle deliberazioni societarie (in questi sensi vedi Cass. 24/7/2007 n.16390 e in senso conforme Cass. 11/7/2008 n.19235).

Nell’ottica descritta, e pur volendo esprimere una più accentuata sensibilità – nell’esercizio della cennata attività valutativa degli interessi in gioco – per i valori tutelati dall’art.36 cost., la Suprema corte  ha ritenuto che non appare congrua l’applicabilità della sanzione della nullità sancita dall’art.2379 c.c., non essendo ravvisabili nelle delibere societarie che avevano prorogato la riduzione dei compensi spettanti ai soci in ragione del protrarsi della crisi negli anni 2011-2013, una violazione di tale gravità da essere assimilata ad una ipotesi di illiceità dell’oggetto, per violazione di norme volte ad impedire deviazioni dallo scopo economico-pratico del rapporto di società (vedi Cass. cit. n.19235/2008, Cass. n.16390/2007).

E ciò proprio considerando la peculiarità della struttura societaria ispirata a finalità di cooperazione e mutualità, oltre che la ricordata esigenza di stabilità (e rapidità) delle deliberazioni societarie, che la applicata sanzione della nullità non appare appropriata alla fattispecie considerata, dovendo farsi invece applicazione della categoria della annullabilità delle delibere societarie di cui all’art. 2377 e del relativo regime di impugnazione.

RISOLUZIONE CASO PRATICO

Alla luce delle premesse normative e delle considerazioni esposte in precedenza dunque,  la delibera con cui la società cooperativa  ha determinato, in caso di crisi, una riduzione del trattamento economico del socio lavoratore, è annullabile se non indica la temporaneità di tale misura.

Una delibera avente tale contenuto deve obbligatoriamente essere condizionata alla necessaria temporaneità dello stato di crisi e, quindi, all’essenziale apposizione di un termine finale ad esso.
Laddove manchi detto elemento, la delibera è da considerare annullabile e non nulla.
La categoria della nullità è, infatti, limitata ai soli casi di impossibilità o illiceità dell’oggetto, ravvisabili in ipotesi di contrasto con norme dettate a tutela degli interessi generali, dirette ad impedire deviazioni dallo scopo economico-pratico del rapporto societario.
L’elemento della “temporaneità” viene confermato come essenziale, mentre si afferma un orientamento interessante (e con argomentazioni di ampia portata) in relazione alle conseguenze, vale a dire al “tipo” di invalidità che viene desunta quale conseguenza, appunto, della mancata determinazione del confine temporale.

Secondo la  Cass. 2967/2021 la conseguenza di una deliberazione che fosse viziata, non avendo previsto la durata dello stato di crisi e del relativo piano, non è la radicale nullità, ma la semplice annullabilità.

Non è affermazione da poco, in quanto la disciplina del codice su nullità e annullabilità delle delibere assembleari è ben più pesante per la prima, rispetto alla seconda (tre anni invece di 90 giorni;  rilevabilità d’ufficio da parte del Giudice nel primo caso, non nel secondo).

L’applicazione anche al socio lavoratore dei principi di cui all’art. 36 Cost. in tema di lavoro subordinato deve, comunque, essere coordinata “con quella che è la funzione sociale della cooperazione a finalità di mutualità (art. 45 Cost. comma 1, secondo cui la Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata e la legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità)”.

Proprio considerando la peculiarità della struttura societaria ispirata a finalità di cooperazione e mutualità, oltre all’esigenza di stabilità (e rapidità) delle deliberazioni societarie, la  sanzione della nullità non appare appropriata, dovendo farsi invece applicazione della categoria dell’annullabilità delle delibere societarie di cui all’art. 2377 e del relativo regime di impugnazione”.