Risarcimento del danno da demansionamento e onere della prova gravante sul prestatore di lavoro

Ettore, dipendente della società Gas plus,  aveva prestato la propria attività come consulente legale della società stessa per circa 8 anni e successivamente in esito al distacco dello stesso presso un’altra unità produttiva della società controllante Sida s.r.l , svolgeva mansioni di gestione dei dati amministrativi relativi agli automezzi delle società del gruppo, riconducibili al livello inferiore, ossia al 3° o 4° impiegatizio.
Ettore, dunque, si rivolgeva al suo legale di riferimento per verificare la sussistenza di un eventuale danno da demansionamento e chiedere delucidazioni in merito all’onere della prova ai fini della sussistenza del danno stesso.

CONTESTO NORMATIVO

Come noto, con il termine “demansionamento” si indica l’adibizione del lavoratore a mansioni ricomprese in un livello di inquadramento (genericamente inferiore) rispetto a quello pattuito all’interno del contratto individuale di lavoro o a quello corrispondente alle mansioni da ultimo svolte.

Fino al 24 giugno 2015, il demansionamento era considerato illegittimo, allorquando posto in essere in violazione del “principio dell’equivalenza” previsto dall’ art.2103, comma 1, c.c. (nella formulazione  allora vigente), in virtù del quale il datore aveva la facoltà di adibire il lavoratore non soltanto alle mansioni di assunzione, ma anche a quelle equivalenti alle “ultime effettivamente svolte”, ovverosia quelle previste dalla qualifica e riconducibili a quel preciso contratto,  che il lavoratore stava effettivamente prestando al momento dell’esercizio del potere di mutamento del datore di lavoro, senza alcuna diminuzione della retribuzione.

La suddetta disciplina ha subito un radicale mutamento ad opera dall’ art.3 D. Lgs. n. 81/2015, entrato in vigore, per l’appunto, il 25 giugno 2015.

Il nuovo primo comma dell’art. 2103 c.c. stabilisce oggi infatti che: “il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte” (demansionamento c.d. orizzontale).

Il criterio dell’”equivalenza delle mansioni”, presente nella precedente formulazione, è quindi oggi sostituito, ad opera della riforma, dal riferimento più puntuale alle “mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento”, laddove la nozione “livello di inquadramento” raggruppa una serie di specifici profili professionali che sono individuati in base alle caratteristiche della prestazione di lavoro e di dati ambientali e/o sociali e il riferimento alla “categoria legale” di inquadramento rimanda alla prescrizione di cui all’art. 2095 c.c., secondo il quale “i prestatori di lavoro subordinato si distinguono in dirigenti, quadri, impiegati e operai (…)”.

Sempre secondo il nuovo art.2103 c.c., l’esercizio datoriale del potere dello jus variandi in peius (c.d. demansionamento verticale) sarebbe legittimo in tre ipotesi specifiche, e segnatamente:

  • nel caso in cui la modifica di assetti organizzativi aziendali incida sulla posizione del lavoratore (art. 2103, comma 2, c.c.). In questa ipotesi il demansionamento è un effetto della determinazione unilaterale del datore di lavoro, che prescinde da una pattuizione con il lavoratore, ma presuppone la sussistenza di una sorta di giustificato motivo oggettivo, per motivi ricollegabili alla gestione dell’impresa;
  • nel caso di previsione da parte del contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro (art. 2103, comma 4, c.c.);
  • nel caso di previsione da parte di un accordo individuale di modifica delle mansioni stipulato nelle c.d. sedi protette, che risponda all’interesse del lavoratore: alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle proprie condizioni di vita (art. 2103, comma 6, c.c.).

Le suddette tre ipotesi sono tutte accomunate dal fatto che, per rendere possibile l’assegnazione a mansioni inferiori, è necessaria la sussistenza della causa che le giustifica e richiedono tutte la forma scritta quale forma di comunicazione al lavoratore (art. 2103, comma 8, c.c.); viceversa si differenziano per il fatto che le fattispecie ex 2° e 4° comma, comportano un demansionamento di un solo livello inferiore a parità di categoria legale, nonché il mantenimento del trattamento retributivo goduto in precedenza, e sono frutto dell’esercizio del potere unilaterale del datore di lavoro; mentre quelle che trovano il proprio fondamento nel 6° comma possono determinare un mutamento in peius anche oltre il limite del livello di inquadramento inferiore, per esse non è prevista la conservazione del trattamento corrispettivo, ed infine derivano da accordi individuali.

E’, infine, dedicato alla cd. mobilità verticale verso mansioni superiori il nuovo comma 7 dell’art. 2103 c.c., che prevede testualmente che: “Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione diviene definitiva, salvo diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi”.

È evidente, già da questa sintetica premessa che, con la nuova formulazione dell’art. 2103 cod. civ., si è verificato un cambiamento significativo in materia di flessibilità interna dell’organizzazione del lavoro. Scopo della riforma, infatti, è stato quello di dilatare il perimetro delle mansioni esigibili per realizzare l’obiettivo di aumentare la flessibilità interna del lavoratore. In tal modo, si è assistito ad un ampliamento e ad una legittimazione del potere in capo al datore di lavoro di modificare unilateralmente la prestazione lavorativa, soprattutto quando egli sia costretto ad attuare dei cambiamenti nell’organizzazione e nell’attività produttiva della propria azienda.

IMPLICAZIONI

Nella vicenda oggetto di approfondimento, Ettore, dipendente della società Gas plus,  aveva prestato la propria attività come consulente legale della società stessa per circa 8 anni e successivamente in esito al distacco dello stesso presso un’altra unità produttiva della società controllante Sida s.r.l , svolgeva mansioni di gestione dei dati amministrativi relativi agli automezzi delle società del gruppo, riconducibili al livello inferiore, ossia al 3° o 4° impiegatizio.

Uno dei problemi più delicati in materia di demansionamento ha riguardato (e riguarda in parte ancora oggi) la tutela risarcitoria, cioè il riconoscimento al lavoratore di un diritto al risarcimento del danno collegato a un uso illegittimo del potere datoriale di modifica delle mansioni. L’abuso dell’utilizzo del potere datoriale, infatti, ha fatto sì che da tempo i Giudici si siano posti il problema di assicurare al lavoratore una tutela anche giurisdizionale allorquando penalizzato dalle scelte datoriali.

In caso di demansionamneto, il lavoratore ha diritto ad ottenere il risarcimento se prova in giudizio gli elementi del danno. Infatti il risarcimento per demansionamento non è automatico ma è subordinato alla dimostrazione del danno psicofisico subito a causa della condotta del datore di lavoro.

Per calcolare l’ammontare del risarcimento il giudice dovrà valutare diversi fattori: le caratteristiche del lavoro, la durata del demansionamento, la gravità della condotta e l’entità dei danni subiti.

La Corte di Cassazione ha ribadito che il lavoratore demansionato può ottenere sia il risarcimento del danno patrimoniale che quello non patrimoniale.

Il risarcimento per demansionamento può comprendere due fattori:

  • i danni patrimoniali, cioè l’impoverimento della capacità lavorativa del dipendente e la mancata acquisizione di nuove competenze, nonché la perdita e il lucro cessante e la perdita di chance lavorative;
  • i danni non patrimoniali, che consistono nella lesione di beni immateriali che hanno a che fare con la sfera personale del lavoratore, come ad esempio il diritto alla salute.

Precisiamo però che il risarcimento danni da demansionamento non opera in maniera automatica; pertanto il lavoratore deve dimostrare in giudizio l’esistenza di un danno apprezzabile ed il nesso causale tra la lesione e l’ingiusto demansionamento deciso dal datore di lavoro.

Come abbiamo detto, non sempre il datore di lavoro è tenuto a rispondere civilmente del demansionamento, ma il risarcimento scatta solo laddove il lavoratore dipendente provi in modo specifico la natura e le caratteristiche del pregiudizio. Questo significa che, in sede di giudizio, il dipendente dovrà allegare le certificazioni mediche che dimostrano il danno psicofisico oppure la concreta riduzione di capacità professionale dovuta alle nuove mansioni.

Dunque, prima di procedere al risarcimento per demansionamento, il giudice adito deve riscontrare la presenza di un danno concretamente valutabile, non bastando il solo inadempimento contrattuale del datore di lavoro.

Da ciò si evince che il lavoratore demansionato che vuole ottenere il risarcimento non può prescindere dall’allegazione di documenti che attestino il danno patrimoniale, biologico o esistenziale. In particolare, per quanto riguarda il calcolo del danno biologico il risarcimento per demansionamento non può mai prescindere da un certificato medico che accerta la lesione dell’integrità psicofisica, mentre il danno esistenziale  va provato con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento.

Inoltre il lavoratore deve anche dimostrare il nesso causale tra il demansionamento ed il danno sofferto e cioè che la dequalificazione professionale è la causa scatenante della sofferenza fisica, psichica o emotiva.

Quando il demansionamento integra un’ipotesi di violazione contrattuale, il dipendente che agisce in giudizio può ottenere due provvedimenti, alternativi tra loro:

  • il riconoscimento della qualifica corretta e la reintegrazione nella posizione originaria;
  • lo scioglimento del vincolo lavorativo e l’assegno di disoccupazione, quando il demansionamento è tale da impedire il proseguimento del contratto di lavoro.

Tuttavia, nell’attesa della pronuncia del giudice, il dipendente non può cessare l’attività lavorativa a sua discrezione; ciò giustificherebbe un licenziamento per giusta causa da parte del datore di lavoro.

RISOLUZIONE SECONDO NORMA

Come abbiamo avuto modo di delineare nel corso dell’approfondimento, il  tema della risarcibilità e della prova del danno, anche nella sua componente di danno biologico o esistenziale, subito dal lavoratore a motivo del presunto illegittimo demansionamento, è stato oggetto di numerosi arresti della giurisprudenza, sia di legittimità che di merito.
Già nel 1992 la Cassazione, decidendo una controversia promossa da un dipendente isolato in seguito alla “lottizzazione politica” dell’azienda presso cui era adibito, riconosceva al lavoratore demansionato un diritto al risarcimento del danno subito, vedendo nella dequalificazione una “compromissione peggiorativa della c.d. capacità di concorrenza dell’individuo rispetto agli altri soggetti nei rapporti sociali ed economici” (Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 16 dicembre 1992, n.13299). In quell’occasione la Corte ha riconosciuto al lavoratore, prima ancora che un danno alla professionalità, una lesione alla sua personalità, ai sensi dell’art. 2 della Carta Costituzionale, riconoscendo altresì, conseguentemente, il diritto al risarcimento del relativo danno.

Il principio della tutela della dignità professionale e personale del lavoratore sono stati ribaditi e rafforzati da pronunce giurisprudenziali successive, fino a configurarsi come uno degli oggetti primari della tutela accordata al prestatore di lavoro: secondo la giurisprudenza, infatti, la violazione dell’art. 2103 c.c. è idonea a dar luogo ad una lesione del “fondamentale diritto al lavoro, inteso come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché immagine della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificata dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza”; tale modus operandi produce “una lesione di un bene immateriale per eccellenza qual è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo” (Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 16 maggio 2006, n. 11430).

E’ ormai opinione prevalente, a livello giurisprudenziale e dottrinale, che la responsabilità da demansionamento del datore di lavoro rientri nel novero della responsabilità contrattuale, disciplinata dall’art. 1218 c.c., da intendersi come inadempimento degli obblighi derivanti dal contratto di lavoro. In proposito, le stesse Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato che “deve ritenersi proposta l’azione di responsabilità extracontrattuale tutte le volte che non emerga una precisa scelta del danneggiato, mentre si può ritenere proposta l’azione di responsabilità contrattuale quando la domanda di risarcimento del danno sia espressamente fondata sull’inosservanza, da parte del datore di lavoro, di una puntuale obbligazione contrattuale” (Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 4 maggio 2004 n.8438).

Ma se la configurazione della responsabilità datoriale come contrattuale appare ormai chiara, e da ciò discende l’esonero del lavoratore dall’onere della prova dell’imputabilità dell’inadempimento, l’aspetto che invece suscita non pochi problemi è quello relativo alla quantificazione del risarcimento, date le numerose figure di danni risarcibili, individuate dalla giurisprudenza.

In tema di danno da esercizio illegittimo del potere dello jus variandi, già la Corte Costituzionale aveva affermato che “dalla violazione da parte del datore dell’obbligo di adibire il lavoratore alle mansioni cui ha diritto possono derivare a quest’ultimo danni di vario genere, danni a quel complesso di capacità e di attitudini che viene definito con il termine professionalità, con conseguente compromissione delle aspettative di miglioramento all’interno o all’esterno dell’azienda; danni alla persona ed alla sua dignità, particolarmente gravi nell’ipotesi, non di scuola, in cui la mancata adibizione del lavoratore alle mansioni cui ha diritto si concretizza nella mancanza di qualsiasi prestazione , sicché egli riceve la retribuzione senza fornire alcun corrispettivo; danni alla salute fisica e psichica.” (Corte Costituzionale, 6 aprile 2004 n.113), e così anticipando, di fatto, quelle che saranno le conclusioni cui giungerà, solo pochi anni dopo, la Corte di Cassazione.

Si legge infatti nella pronuncia a Sezioni Unite del 24 marzo 2006 n.6572, che “dall’inadempimento datoriale, può nascere, astrattamente, una pluralità di conseguenze lesive per il lavoratore: danno professionale, danno all’integrità psico-fisica o danno biologico, danno all’immagine o alla vita di relazione, sintetizzati nella locuzione danno cd. esistenziale, che possono anche coesistere l’una con l’altra” e così pronunciando ponendo l’accento sulla configurazione del danno esistenziale, definito più precisamente quale lesione “all’identità professionale sul luogo di lavoro, all’immagine o alla vita di relazione, o comunque come quel pregiudizio al diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, tutelato dagli art. 1 e 2 Cost” (ibidem).

Oltre all’individuazione di questo tipo di danno, all’interno della predetta pronuncia del 2006, vengono menzionati anche danni quelli aventi contenuto patrimoniale, tra cui in primo luogo il danno professionale, che può presentarsi nella realtà in varie forme, quali l’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore, la mancata acquisizione di una maggiore capacità, il pregiudizio subito per perdita di chance o di ulteriori possibilità di guadagno (su cui torneremo più diffusamente infra). In tale categoria di danno professionale parrebbe inoltre rientrare anche il danno biologico, che si configura tutte le volte in cui è riscontrabile una lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore medicalmente accertabile.

Con la propria successiva sentenza, sempre a Sezioni Unite, dell’11 novembre 2008, n. 26972, la Cassazione ha invece scelto di suddividere la categoria dei danni risarcibili con una più semplice distinzione tra danno professionale a contenuto patrimoniale e quello a contenuto non patrimoniale, definendo il primo in continuità con quanto stabilito dal precedente suo intervento, e pertanto quale pregiudizio derivante dall’obsolescenza della capacità professionale acquisita o dalla perdita di ulteriori possibilità di guadagno o di carriera, laddove, in relazione al danno non patrimoniale, è invece affermato trattarsi di una “categoria ampia e onnicomprensiva, all’interno della quale non è possibile individuare ulteriori sottocategorie, se non con finalità puramente descrittiva”.

Oltre a far chiarezza sul punto, la sentenza del 2008 ha il merito di evidenziare come si fossero in allora  formati due orientamenti contrapposti in tema di danno non patrimoniale, l’uno – come visto – favorevole alla configurabilità come categoria autonoma del danno esistenziale, inteso come un pregiudizio attinente alla sfera del fare reddittuale, l’altro invece contrario ad esso, ponendo un punto fermo sulla questione e, pertanto, ritenendo di dover privilegiare il filone secondo il quale il danno esistenziale non rappresenta altro che una voce della più ampia categoria di danno non patrimoniale.

Conseguentemente, precisa sempre la Cassazione nella medesima pronuncia richiamata, anche il danno morale “non individua un’autonoma sottocategoria, ma descrive un tipo di pregiudizio non patrimoniale, costituito dalla sofferenza soggettiva causata dal reato”, indipendentemente dalla sua intensità e durata nel tempo. Parimenti dicasi per il danno biologico, qualificato come una lesione all’integrità psico-fisica del soggetto, di carattere temporaneo o permanente, suscettibile di accertamento medico legale, che ha conseguenze negative sulla vita quotidiana della persona e sulle sue capacità dinamico relazionali.

Detto in altri termini, secondo l’orientamento della Suprema Corte di Cassazione, ancora di attualità, i suddetti tipi di danno (esistenziale, morale e biologico) non devono più essere liquidati separatamente (evitando così, peraltro, il rischio di una duplicazione di indennizzi riconoscibili), ma rappresentano differenti aspetti del danno non patrimoniale, nella sua ampia accezione di danno determinato dalla lesione di interessi attinenti alla persona non connotati da natura economica, il cui riconoscimento e quantificazione terranno conto delle varie voci di cui si compone.

In estrema sintesi, è pertanto oggi possibile affermare che i tipi di danni che potrebbero conseguire al demansionamento sono fondamentalmente di due tipi: di contenuto patrimoniale e non patrimoniale. Rappresenta danno del primo tipo il danno professionale (perdita di chance), e sono invece danni del secondo e unitario genere, il danno morale soggettivo, il danno esistenziale e quello biologico.

Occorre tuttavia precisare che, nel corso del tempo, la giurisprudenza, anche attraverso la valorizzazione dell’art. 2087 cod. civ., abbia arricchito la fattispecie del danno non patrimoniale, in particolare nella specie del danno esistenziale, pur permanendo nelle decisioni l’assenza di rilevanza autonoma dello stesso. Certamente, come autorevole dottrina ha anche evidenziato, non possiamo non osservare come l’avvento del Jobs Act abbia influito sulla tematica in questione, riducendo ovviamente i casi di risarcimento di tale categoria di danno in conseguenza dell’introduzione, con il novellato art. 2103 cod. civ., di fattispecie di demansionamento “legittimo”, ed in particolare a seguito del venir meno della regola dell’equivalenza legata alla professionalità acquisita dal lavoratore nella mobilità orizzontale

RISOLUZIONE CASO PRATICO

Alla luce delle premesse normative e delle considerazioni esposte in precedenza dunque, sussiste la necessità di ancorare la richiesta risarcitoria del dipendente relativa al danno non patrimoniale all’assolvimento di un onere della prova piuttosto rigoroso, che, anche laddove ottemperato attraverso presunzioni, deve fare riferimento a circostanze ed elementi di fatto puntuali e precisi, come affermato anche da altre recenti pronunce sul tema( vedi Cassazione 9295/2020).

È stato statuito  infatti che, ai fini dell’accoglimento della domanda di accertamento del demansionamento e della relativa richiesta risarcitoria di tutti i danni derivati:

“non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento, ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale.”

Il danno da demansionamento infatti  non coincide con l’inadempimento sic et simpliciter. Infatti, per ciò che attiene al demansionamento e alla dequalificazione professionale, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno anche biologico, esistenziale o comunque non patrimoniale che ne deriva, presuppone e impone la specifica e puntuale allegazione della condotta demansionante del datore di lavoro, della natura e delle caratteristiche del pregiudizio subito e della sussistenza di un collegamento causale con l’inadempimento datoriale.
La prova di tale danno può anche essere fornita attraverso il ricorso alle c.d. presunzioni.
Tuttavia, gli elementi presuntivi allegati devono essere gravi, precisi e concordanti e devono consentire di valutare la qualità e la quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa dopo la prospettata dequalificazione.