Orario di lavoro e tempo “ tuta”: quando deve essere retribuito?

Delta, azienda operante nel settore metalmeccanico, produce componenti per autovetture  impiegando una forza lavoro di 35 dipendenti.

Di detto personale n. 20 unità sono inquadrate come operai e sono addetti, all’interno dello stabilimento, alla produzione ed assemblaggio; mentre n. 5 unità sono addette alla progettazione ingegneristica di particolari componenti e le rimanenti unità sono addette ad attività di concetto.

Caio, operaio addetto alla produzione e Mevio ingegnere ricercatore, da tempo chiedono che la direzione chiarisca il motivo per cui non gli sia riconosciuto il tempo tuta, gli uni per la vestizione della tuta prima di entrare nel reparto produzione e gli altri per il camice prima di passare la timbratura  e recarsi negli uffici di progettazione.

Delta asserisce che il “tempo tuta” non richiede applicazione assidua e continuativa ed è equiparabile ad un riposo intermedio ovvero al tempo necessario per recarsi al lavoro e pertanto giustifica il mancato riconoscimento economico del “ tempo tuta”.

Caio e Mevio, tuttavia, non soddisfatti del riscontro, espongono di rivolgersi ad un sindacato in assenza di precisi chiarimenti.

Delta, dunque, conferisce un incarico ad un professionista affinchè si pronunci con un parere chiarificatore da sottoporre ai lavoratori.

Cenni di introduzione alla trattazione

Nella prima parte della trattazione  del caso del mese di luglio, si esamineranno  gli aspetti normativi relativi ai principi afferenti la retribuibilità delle pause lavorative e dei riposi intermedi nell’ambito di un rapporto di lavoro.
Premessi brevi cenni sul concetto di orario di lavoro, si passerà ad esaminare la differenza normativa tra pause interne e riposi intermedi analizzando la retribuibilità o meno degli stessi, per poi focalizzare l’attenzione sul concetto di tempo tuta e sull’evoluzione giurisprudenziale in merito  offrendo successivamente  al lettore una possibile  e prospettabile risoluzione del caso pratico.

CONTESTO NORMATIVO

Il concetto di orario di lavoro effettivo

La normativa  in riferimento all’orario di lavoro è regolata dal D. Lgs. n. 66/2003 avente ad oggetto la riforma della disciplina in materia di orario di lavoro in attuazione delle direttive 93/104/Ce e 2000/34/Ce.
In particolare, in base all’ art. 1, comma 2 lettera a) del D.Lsg n. 66/2003 è precisato che costituisce orario di lavoro qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni.
L’ orario normale di lavoro è  fissato in 40 ore settimanali, modificabile in senso riduttivo dai contratti collettivi ma con l’obbligo di riferire l’orario normale alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all’anno.
Nella normativa suddetta è precisato inoltre che la durata massima dell’orario di lavoro è quella fissata volta per volta dalla contrattazione collettiva e non può comunque superare mediamente le 48 ore settimanali, comprese le ore di straordinario.
In particolare non viene stabilito un limite giornaliero di durata dell’orario di lavoro e, secondo la lettera circolare n. 5/27373/70 dell’11.09.03 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, non può darsi neanche una definizione rigida della settimana lavorativa; infatti si può considerare “settimana lavorativa” ogni periodo di sette giorni, con la conseguenza che i datori di lavoro possono far decorrere la settimana di riferimento a partire da qualsiasi giorno.
La durata media dell’orario di lavoro deve essere calcolata con riferimento a un periodo non superiore a quattro mesi, che può essere dilatato sempre con contrattazione collettiva fino a sei o a dodici mesi, ma solo per ragioni obiettive, tecniche o inerenti all’organizzazione del lavoro, che siano specificate negli stessi contratti collettivi.

Retribuzione pause di lavoro  e riposi intermedi

La disciplina generale in riferimento alle pause di lavoro si rinviene nell’art. 8 D.Lgs. n. 66/2003 con il quale è prevista una soglia minima di tutela valevole per tutti i lavoratori mentre è lasciata alla contrattazione collettiva la regolamentazione delle modalità, dei tempi e della retribuzione delle stesse.
In particolare l’art. 8 del D.lgs. n. 66/2003 ha statuito che qualora l-orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di sei ore, il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per pausa, le cui modalità e la cui durata sono stabilite dai contratti collettivi di lavoro ai fini del recupero delle energie psico-fisiche e della eventuale consumazione del pasto anche al fine di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo.  È  precisato inoltre che nelle ipotesi suindicate, in difetto di disciplina collettiva che preveda un intervallo a qualsivoglia titolo attribuito, al lavoratore deve essere concessa una pausa, anche sul posto di lavoro, tra l-inizio e la fine di ogni periodo giornaliero di lavoro, di durata non inferiore a dieci minuti e la cui collocazione deve tener conto delle esigenze tecniche del processo lavorativo.
Il diritto ad usufruire della pausa, almeno nei limiti della soglia minima stabilita dall’art. 8, è indisponibile nel senso che non è monetizzabile e, pertanto, non può essere sostituito da compensazioni economiche; sono, pertanto, nulle quelle clausole collettive che stabiliscono dei compensi o indennità per la mancata fruizione delle pause.
In particolare la retribuibilità delle pause lavorative è demandata principalmente all-autonomia collettiva sia di categoria che aziendale. In assenza di tali previsioni, l-art. 8 ha stabilito la non retribuibilità delle pause lavorative in riferimento ai riposi intermedi che siano presi sia all’interno che all’esterno dell’azienda.
Sono da considerarsi nel computo del lavoro effettivo quelle soste, anche se di durata superiore a 15 minuti, che sono concesse all-operaio nei lavori molto faticosi allo scopo di rimetterlo in condizioni fisiche di riprendere il lavoro. Il c. 2 dello stesso art. 5, aggiunge che i riposi normali, perché possano essere detratti dal computo del lavoro effettivo, debbono essere prestabiliti ad ore fisse ed indicati nell’orario di cui all’art. 12.
In relazione alla retribuibilità delle pause particolare importanza assume la differenziazione tra soste e riposi intermedi.
Questi due concetti, pur avendo come tratto comune un intervallo non lavorato, si differenziano per due aspetti: la programmaticità e la collocazione all-interno del periodo lavorativo giornaliero. Mentre le soste si configurano come “pause interne” della prestazione, non rigidamente predeterminabili, strettamente connesse con le esigenze del processo produttivo, i riposi intermedi, invece, sono dei momenti d’inattività compresi tra due intervalli o “turni” di lavoro contrattualmente predefiniti. Sebbene i due concetti, appaiano abbastanza neutri dal punto di vista funzionale, va subito chiarito che, salva diversa disposizione da parte della contrattazione collettiva o individuale, i riposi intermedi, per definizione, non sono computabili nell-orario di lavoro e, pertanto, non sono retribuibili.
Ad ogni buon conto la possibilità di retribuzione delle pause lavorative dipende inevitabilmente dall’essere il lavoratore a disposizione o meno del proprio datore di lavoro, e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni, pertanto il regime patrimoniale delle soste varia a seconda delle proprie caratteristiche intrinseche.
Tale principio infatti non collega correlativamente il concetto di orario di lavoro dal lavoro effettivo e pertanto le soste potranno essere escluse dall-orario di lavoro e non retribuite soltanto quando il lavoratore non sia adibito ad alcuna mansione, né a disposizione del datore di lavoro e sia libero di gestire il proprio tempo.
In effetti la non retribuibilità delle pause di lavoro trova determinate eccezioni in particolari ipotesi quali le soste inferiori a dieci minuti, che possono essere quelle legate ad una causa di forza maggiore, ad esigenze fisiologiche del lavoratore o semplicemente di alleggerimento del carico di lavoro e alla tutela psico-fisica dei lavoratori.
In pratica quindi quando il datore di lavoro prevede, attraverso dei regolamenti interni o prassi aziendali, delle soste diverse da quelle di fonte legale e collettiva e che contengano i presupposti della non retribuibilità, dovrà comunque mettere in condizione il lavoratore di svolgere l-orario di lavoro contrattualmente previsto e di percepire una retribuzione piena.
Particolare disciplina merita in tale contestualizzazione la disciplina del tempo tuta e la correlata giurisprudenza di riferimento che costituisce argomento centrale della suddetta trattazione.

Tempo tuta e obbligo di retribuzione

Il tempo tuta risulta identificabile come il tempo impiegato dal lavoratore per indossare e togliere la divisa nel luogo di lavoro.
Nel caso oggetto di trattazione l’azienda Delta ha  ritenuto giustificato il mancato riconoscimento economico del tempo tuta asserendo che esso non richiede applicazione assidua e continuativa ed è equiparabile ad un riposo intermedio ovvero al tempo necessario per recarsi al lavoro.
Parlare di tempo tuta in tale contestualizzazione richiede inevitabilmente una connessione con il concetto di orario di lavoro.
Se quando parliamo di orario di lavoro ci riferiamo a qualsiasi periodo in cui il lavoratore resta a disposizione del proprio datore di lavoro, nell-esercizio delle sue attività lavorative o delle sue funzioni con esclusione degli intervalli di tempo in cui il dipendente gode della piena disponibilità, allora non possiamo certo escludere che il tempo impiegato dal lavoratore per indossare e togliere la divisa nel luogo di lavoro possa essere considerato come orario di lavoro da retribuire.
Secondo la giurisprudenza di merito, l-ago della bilancia che ci consente di stabilire se tali attività debbano essere o meno retribuite a tutti gli effetti come tempo di lavoro, è rappresentato dalla configurazione in capo al lavoratore subordinato stesso della facoltà di scegliere il tempo, le modalità ed il luogo in cui svolgere le stesse rientrandovi così tutte quelle operazioni eterodirette e regolamentate dal datore di lavoro.
Con riferimento al c.d. “tempo-tuta”, la Corte di Cassazione infatti ha individuato quali sono gli indici sintomatici che devono sussistere ai fini della configurazione della etero direzione datoriale.
La Suprema Corte infatti ha disposto  che se tale operazione è diretta dal datore di lavoro che ne disciplina ad esempio, il luogo di esecuzione, rientra nel concetto di lavoro effettivo e di conseguenza il tempo necessario deve essere retribuito (Cass. Civ., sez. lav. 21.10.2003, n. 15734).
Un indizio sicuramente rilevante, può essere individuato nell-obbligo in capo al lavoratore subordinato di indossare la divisa all-interno del luogo di lavoro. A tal proposito, ad esempio, la predisposizione da parte del datore di lavoro di appositi spogliatoi ove indossare (e togliere) la divisa obbligatoria, fornisce sicuramente una conferma in merito all-assoggettamento da parte del dipendente ai poteri datoriali.
A tal proposito la Suprema Corte con la sentenza n. 19358  del 10 settembre 2010 ha statuito che  se è data la facoltà al lavoratore di sceglier il tempo e il luogo ove indossare la divisa anche presso la propria abitazione prima di recarsi al lavoro, la relativa attività rientra tra gli atti preparatori allo svolgimento dell’attività lavorativa e come tale non deve essere retribuita, invece se tale operazione è diretta dal datore di lavoro  che ne disciplina il tempo e il luogo di esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito.
In particolare  l-eterodeterminazione del tempo e del luogo ove indossare la divisa o gli indumenti necessari per la prestazione lavorativa, che fa rientrare il tempo necessario per la vestizione e svestizione nell-ambito del tempo di lavoro retribuito, può derivare dall-esplicita disciplina d-impresa, o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti da indossare o dalla specifica funzione che essi devono assolvere nello svolgimento della prestazione.
Tale principio è stato ribadito inoltre dalla Cassazione Civile con la sentenza 1352/2016 con la quale è stato precisato che è ricompreso nell’orario di lavoro il tempo durante il quale il lavoratore, per essere a disposizione dei datore di lavoro, non può liberamente utilizzare il proprio tempo, e quindi anche il tempo occorrente per indossare la divisa.
Nel caso oggetto di trattazione infatti Mevio e Caio sono entrambi dipendenti della stessa azienda l’uno in qualità di ingegnere e l’altro come operaio ed entrambi chiedono che gli venga riconosciuto il tempo tuta e come avremo modo di precisare le soluzioni appariranno diversificate proprio in riferimento alle qualifiche ed alle specifiche attività lavorative svolte.

Implicazioni conseguenti alla interazione dei principi normativi in relazione al caso pratico

Nel caso oggetto di approfondimento Caio, operaio addetto alla produzione  e Mevio ingegnere ricercatore nella società Delta, azienda operante nel settore metalmeccanico, da tempo chiedono che la Direzione chiarisca il motivo per cui non gli sia riconosciuto il tempo tuta, l’uno per la vestizione della tuta prima di entrare nel reparto produzione e l’altro per la vestizione del camice prima di passare la timbratura e recarsi negli uffici di progettazione.
Orbene, ai fini di un corretto inquadramento della questione risulta fondamentale la chiarificazione del concetto di orario di lavoro per cercare di discernere se in tale nozione possa o meno essere ricompreso il tempo tuta.
Come noto, per orario di lavoro e così come nei richiami normativi riproposti, si intende il tempo in cui il lavoratore resta a disposizione del proprio datore nell’esercizio delle sue attività lavorative  o delle sue funzioni.
A tal punto la domanda sorge spontanea: può essere considerato il tempo tuta il tempo in cui il lavoratore resta a disposizione del datore di lavoro?
È evidente quanto la questione sia rilevante per le ricadute economiche nei confronti dei lavoratori e dei datori di lavoro ed è per tale ragione che il contenzioso in materia è piuttosto elevato.
Infatti alla luce della normativa vigente il discrimen tra ciò che è orario di lavoro e ciò che non lo è consiste nell’eterodirezione, cioè nell’assoggettamento del lavoratore all’esercizio del potere organizzativo, direttivo e di controllo da parte del datore di lavoro, conformemente a quanto già individuato dal consolidato orientamento giurisprudenziale e dottrinale in materia.
Per l’individuazione degli indici caratterizzanti l’eterodirezione nella fase di vestizione/ dismissione dell’abito di lavoro occorre  far riferimento alla disciplina contrattuale specifica: in particolare, ove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo dove indossare la divisa stessa (anche presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro) la relativa attività fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa, e come tale non deve essere retribuita, mentre se tale operazione è diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo e il luogo di esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo necessario deve essere retribuito.
In base all’orientamento  giurisprudenziale maggioritario, un indice rilevante dell’eterodirezione consiste nell’obbligo di indossare la tuta all’interno del luogo di lavoro. A maggior ragione, la predisposizione – all’interno dell’ambiente di lavoro – di appositi spogliatoi risulta una conferma dell’assoggettamento del lavoratore ai poteri datoriali anche nella fase preliminare della vestizione.
Una parte della giurisprudenza ha indicato come elemento di eterodirezione la scelta imprenditoriale di individuare sia l’ubicazione degli spogliatoi e dei reparti sia gli eventuali mezzi per raggiungerli.
Ciò che consente di stabilire, se tali attività debbono essere o meno retribuite come tempo di lavoro, dipende dalla configurazione in capo al lavoratore stesso della facoltà di “scegliere” il tempo, le modalità e il luogo in cui svolgere le stesse. Conseguentemente ciò che rileva è la quantità di tempo libero di cui il lavoratore perde la propria disponibilità e orario di lavoro dovrà quindi essere considerato come un tempo necessariamente alternativo a quello di riposo rispetto al quale la collocazione del tempo necessario al lavoratore per indossare/dismettere la divisa, risulta assolutamente indubitabile.
Sul punto, è interessante la soluzione prospettata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali che in risposta all’interpello n. 13 del 2 aprile 2010 promosso dall’Associazione Nazionale Costruttori Edili ha specificato che ove l’accesso al punto di raccolta per prelevare e riporre la divisa e i dispositivi di protezione individuale costituisca una mera comodità per il lavoratore, l’orario di lavoro decorre dal momento in cui il lavoratore è a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività presso il cantiere. Viceversa, se è richiesto al lavoratore di recarsi al punto di raccolta per utilizzare un particolare mezzo di trasporto o per reperire la strumentazione necessaria o, comunque, di porsi a disposizione del datore di lavoro presso detto punto raccolta entro un determinato momento, è a partire da quest’ultimo che deve computarsi l’orario di lavoro.
Un altro indice di eterodirezione può essere ravvisato nella rilevazione – tramite badge elettronico, cartellini marca-tempo o tornelli – dell’ingresso del lavoratore all’interno dello stabilimento: fin da tale momento il dipendente risulterebbe a disposizione del datore di lavoro e sottoposto al suo coordinamento spaziale e temporale, in una sorta di “assoggettabilità astratta”. In tale ottica, la nozione di orario di lavoro non comprende solo la prestazione in senso stretto, ma “un concetto più flessibile ed esteso, che sicuramente integra operazioni strettamente funzionali alla prestazione” e a nulla rileva che “l’impresa non abbia adottato prescrizioni sui tempi entro i quali compiere tali operazioni, perché avrebbe potuto dare direttive sul punto”.
Pertanto una volta accertata l’eterodirezione, il tempo impiegato per indossare e dismettere la divisa viene considerato a tutti gli effetti orario di lavoro e, pertanto, come tale deve essere retribuito.

Risoluzione caso pratico

Alla  luce delle premesse normative e delle varie considerazioni esposte in precedenza, è da ritenersi  che nel caso sottoposto al nostro esame l’operaio  Caio addetto alla produzione ha  diritto alla retribuzione del tempo tuta, mentre l’ingegnere ricercatore  Mevio per la diversa funzionalità e modalità organizzativa della vestizione, peraltro non necessariamente richiesta per l’esecuzione della prestazione lavorativa, non ha diritto alla retribuzione del tempo impiegato per indossare il camice.
Tale conclusione appare senz’altro in linea con i più recenti e consolidati orientamenti giurisprudenziali secondo cui devono essere analizzate le caratteristiche della divisa imposta per l-espletamento della prestazione in tutte le sue componenti, per esaminare se essa possa essere indossata dai lavoratori in luogo diverso da quello di lavoro, secondo un criterio di “normalità sociale” dell-abbigliamento.
L’eterodeterminazione del tempo e del luogo ove indossare la divisa o gli indumenti necessari per la prestazione lavorativa, fa rientrare il tempo necessario per la vestizione e svestizione nell-ambito del tempo di lavoro, e la disciplina di tale tempistica può derivare dall-esplicita disciplina d-impresa, o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti da indossare o dalla specifica funzione che essi devono assolvere nello svolgimento della prestazione.
Infatti nel caso sottoposto al vaglio del nostro studio l’operaio Caio, la cui vestizione sarebbe più complessa in quanto caratterizzata dall’indossare scarpe antinfortunistiche, divisa e casco appriopriati richiederebbe maggior tempo rispetto alla vestizione dell’ingegnere Mevio il quale per l’espletamento della propria prestazione lavorativa necessiterebbe di un semplice camice riducendo così le tempistiche per la vestizione.
Nello specifico ambiente di lavoro di Caio, la divisa non ha una semplice funzione estetica ma protettiva per cui la divisa deve essere considerata a tutti gli effetti un dispositivo individuale di protezione; per tale circostanza e proprio in relazione alle caratteristiche pericolose della prestazione lavorativa dei suoi dipendenti, il datore ha infatti  l’obbligo di fornire agli stessi dei mezzi di protezione individuali e di osservare che i medesimi siano indossati al momento dell’inizio dell-attività lavorativa. E’ evidente che il tempo necessario affinché i dipendenti, all’interno dell’azienda, provvedano a indossare i mezzi di protezione, è un tempo messo a disposizione del datore di lavoro. In tal modo, anche il tempo che il lavoratore impiega, all’interno dell’azienda, per indossare e togliere i dispositivi di protezione individuale, rientra nella nozione di orario di lavoro; quel tempo è impiegato affinché il datore di lavoro possa in concreto adempiere esattamente all’obbligazione di osservare la normativa antinfortunistica (nella specie quella che prescrive l’obbligo di fornire ai dipendenti dispositivi di protezione individuale e di esigere che questi siano effettivamente utilizzati durante la prestazione lavorativa).
Tale orientamento è stato confermato anche dalla più recente giurisprudenza, secondo cui nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo occorrente per indossare la divisa aziendale, ancorché relativo ad una  fase preparatoria del rapporto, deve essere autonomamente retribuito ove la relativa prestazione, pur accessoria e strumentale rispetto alla prestazione lavorativa, debba essere eseguita nell’ambito della disciplina d’impresa e sia autonomamente esigibile dal datore di lavoro, il quale può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella preparatoria (Cass. n. 19358/2010).
Il tempo impiegato, all’interno dell’azienda, per le attività di vestizione e svestizione di tutti i dispositivi di sicurezza, si configura infatti, anche in questo caso, come tempo a disposizione del datore di lavoro. In altri termini, poiché il diritto alla retribuzione sorge per il solo fatto della messa a disposizione delle energie lavorative, la semplice presenza del dipendente in azienda determina la presunzione della sussistenza nel datore di lavoro del poter disporre della prestazione lavorativa.
Orbene nel caso sottoposto al nostro esame, proprio per la diversità delle varie mansioni e qualifiche professionali esistenti in azienda, risulterebbe opportuno che l’azienda Delta adottasse una regolamentazione interna  attraverso cui chiarire la retribuibilità o meno del “ tempo tuta”.
Una risoluzione operativa che l’azienda potrebbe adottare quindi, potrebbe essere una comunicazione idonea a regolamentare la durata della vestizione o svestizione entro precisi termini di timbratura fissati dall’azienda e posti alla conoscenza del personale dipendente.
Nel caso sottoposto alla nostra disamina, dunque, all’azienda Delta verrà fornita dal professionista un’apposita informativa da circolarizzare all’interno  dell’azienda, al fine di sgomberare il campo da ogni dubbio e regolamentare i tempi di vestizione/ svestizione attraverso uno specifico cadenzamento temporale delle suddette operazioni da ricomprendere all’interno dell’orario di lavoro.
Di seguito si riporta il testo sottoposto al personale dell’azienda Delta:

Oggetto: Comunicazioni

Avuto riguardo alle esigenze di organizzazione dei tempi di lavoro si invita il personale a recepire quanto segue.
È obbligatorio per tutto il personale, passare il badge nell’apposito lettore per registrare l’esatta ora di entrata e di uscita
Al personale che per ragioni di servizio è tenuto ad indossare una divisa, intendendosi per essa solo la tipologia composta dai seguenti indumenti (scarpe antinfortunistiche, divisa e casco appropriati) viene riconosciuto il tempo necessario per la vestizione/svestizione come orario di lavoro.
Per questo motivo si prevede che i badge di marcatura dell’orario dovranno passare sull’apposito lettore solo dopo aver indossato gli indumenti da lavoro prima di iniziare il turno e prima di togliersi tali indumenti al termine del turno stesso.
Il tempo dedicato alla vestizione/svestizione, all’inizio dell’ordinario orario di lavoro ed al termine dell’orario di lavoro, è quantificato e definito in 10 minuti  complessivi per ogni turno di servizio ( ad esempio per una giornata lavorativa tipo di 8 h, il dipendente è chiamato a prestare servizio per 7h e 50 e la differenza è impiegata per la vestizione/svestizione).
Il periodo di sovrapposizione, oltre il limite di 10 minuti in entrata o in uscita, sarà computato ai fini del debito orario del dipendente, senza che ciò comporti il ricorso a lavoro straordinario.
Della presente comunicazione ne viene fornita ampia diffusione e sottoposta alla sottoscrizione per ricevuta.