Mancato rinnovo di contratto a termine, discriminazione di genere e regime probatorio

Una lavoratrice aveva prestato la propria attività lavorativa presso un ente pubblico di ricerca con 2 contratti a termine – il primo decorrente dal gennaio 2003 e scadente nell’agosto 2003, il secondo iniziato nel settembre 2003 e con scadenza nell’aprile 2004 – e, in occasione del secondo contratto a tempo determinato, era venuta a trovarsi in stato di gravidanza. Al termine del secondo rapporto a tempo determinato la lavoratrice non aveva, però, ottenuto, a differenza di altri colleghi, la proroga del contratto di lavoro. La stessa aveva poi, altresì, partecipato, come esterna, a un concorso presso lo stesso ente pubblico di ricerca per un’assunzione, sempre a tempo determinato ma per la durata di un anno e, benché fosse stata dichiarata vincitrice di tale concorso e avesse inviato all’Amministrazione la documentazione per l’assunzione, non era stata mai convocata dall’ente per la sottoscrizione del contratto.
La lavoratrice aveva, quindi, agito in via ordinaria innanzi al Tribunale, chiedendo che fosse dichiarata la natura discriminatoria della mancata concessione della proroga dell’ultimo contratto a tempo determinato intercorso con l’ente pubblico, proroga invece concessa, a tutti i colleghi della stessa che si trovavano nella medesima situazione contrattuale.

CONTESTO NORMATIVO

Come noto, la  discriminazione di genere è   la distinzione, diversificazione o differenziazione operata fra persone in base al genere sessuale, ciò significa che gli individui vengono giudicati semplicisticamente in base ad alcune caratteristiche fisiche o del gruppo di appartenenza, in questo caso il gruppo maschi o femmine.

All’art. 25 del Decreto Legislativo 198/2006 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), si leggono due definizioni complementari di discriminazione:

-discriminazione diretta: è la situazione nella quale una persona è trattata, in base al sesso, meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga. Un esempio classico di discriminazione diretta è la mancata assunzione di una lavoratrice perché incinta; oppure, la mancata promozione di una lavoratrice perché donna;
-discriminazione indiretta: è la situazione nella quale una disposizione, un criterio o una prassi,  apparentemente neutri, possono mettere in una situazione di particolare svantaggio le persone di un determinato sesso rispetto a persone dell’altro, a meno che tale disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il conseguimento della finalità stessa siano appropriati e necessari. Un esempio, è il caso della statura minima richiesta per la partecipazione a un concorso e tarata su medie maschili: va da sé che non vi è discriminazione sulla singola persona, ma adottando un simile criterio di selezione indubbiamente si avvantaggiano gli uomini rispetto alle donne. Altro esempio è la previsione di una particolare indennità solo per dipendenti che abbiano sempre optato per il “full-time”; le donne che più spesso richiedono il “part-time” per ragioni di conciliazione fra casa e lavoro, ne sarebbero indirettamente escluse.
Quindi, al fine di valutare se si rientra o meno in una previsione discriminatoria, bisogna prendere in considerazione “il particolare svantaggio” e verificare se questo è qualitativamente consistente. Per restare agli esempi fatti: c’è discriminazione se non posso, in quanto persona appartenente a un sesso piuttosto che all’altro, godere di una data indennità o partecipare a un determinato concorso.

Con le disposizioni di Legge in vigore, il giudizio discriminatorio appare neutro: possono essere discriminati tanto le donne quanto gli uomini. Il giudizio discriminatorio deve essere oggettivo e fondato su una valutazione comparativa di agevole percezione e valutazione.

Occorre sottolineare che le varie ipotesi di discriminazione sono estese anche alle donne e agli uomini che esercitino attività di lavoro autonomo.

È importante ricordare che nel lavoro la legge vieta:

– che  vengano poste domande sullo stato di gravidanza,  stato di famiglia o sui  progetti futuri in ambito familiare;

– che all’atto dell’assunzione ti invitino a sottoscrivere una lettera di dimissioni in bianco oppure ti chiedano di sottoporti a test di gravidanza;

– che ti chiedano requisiti di accesso non giustificati dall’attività lavorativa che devi svolgere (es. altezza minima, particolari capacità di forza fisica, ecc…);

– che al rientro dalla maternità o da un congedo ti vengano affidate mansioni di contenuto inferiore a quelle precedentemente svolte;

– che le prestazioni uguali o di pari valore ti vengano corrisposte retribuzioni o qualifiche differenti in base al sesso;

– che l’organizzazione del lavoro incida diversamente a seconda del sesso (ad es. quando vengono organizzati corsi di formazione in orari inconciliabili con le proprie esigenze personali).

 La legge promuove la possibilità:

– di congedi formativi;

– di congedi parentali;

– di finanziamento di progetti che intendono introdurre forme di flessibilità dell’orario di lavoro allo

scopo di favorire la conciliazione tra i tempi di vita ed i tempi di lavoro e nel caso si pensi di essere destinataria/destinatario di un comportamento discriminatorio sul lavoro è possibile

– incontrare le Consigliere di Parità per valutare con loro la  situazione;

–  informarti presso l’Ufficio delle Consigliere di Parità sui diritti e sulle opportunità che  sono offerte dalla normativa vigente;

–  chiedere alle Consigliere di agire in giudizio su tua delega per sostenere la tua posizione.

La Carta Sociale Europea Riveduta (CSER) del 1996, adottata nell’ambito del Consiglio d’Europa, ha sancito all’art. 20 il diritto alla parità di opportunità e di eguale trattamento nell’accesso al lavoro, nelle condizioni di impiego e di lavoro (ivi compresa la retribuzione), nella tutela in caso di licenziamento e reinserimento professionale, nell’orientamento, nella formazione professionale nonché nelle progressioni di carriera, comprese le promozioni.

 Tale disposizione va interpretata nel senso del più ampio divieto di ogni discriminazione, diretta o indiretta, e dell’assoluta eguaglianza dei lavoratori, a prescindere dalla loro appartenenza al settore pubblico o a quello privato, senza distinzione per coloro che sono impegnati a tempo pieno o a tempo parziale.

 Lo stesso Comitato Europeo dei Diritti Sociali (CEDS), tanto nelle conclusioni formulate all’esito dei sui controlli annuali in ordine al rispetto della Carta da parte dagli Stati quanto attraverso le decisioni di merito sui reclami collettivi che gli vengono presentati, ha sistematicamente affermato come la semplice non applicazione di una disposizione discriminatoria non sia sufficiente perché uno Stato ottenga una dichiarazione di conformità del suo ordinamento e delle sue prassi alla Carta.

 La Carta ha, inoltre, consacrato il divieto di discriminazione sulla base del sesso (art. 21) e la parità tra donne e uomini (art. 23) come diritti fondamentali di tutti gli individui, a prescindere quindi non solo dall’esercizio di un’attività economica, ma anche dall’appartenenza ad uno Stato membro.

 Il diritto alla tutela contro la discriminazione per tutti gli individui costituisce un diritto universale riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dalla Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, dai Patti delle Nazioni Unite relativi ai diritti civili e politici e ai diritti economici e sociali e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. 

 L’impegno degli Stati membri in materia è stato formalizzato nel Patto europeo per l’uguaglianza di genere del Consiglio per il periodo 2011-2020.

 In esso il Consiglio ha riaffermato l’impegno dell’UE di ridurre la differenza tra i sessi nel lavoro, nell’educazione e nella protezione sociale, di conciliare la vita lavorativa con quella familiare, migliorando l’offerta di servizi per l’infanzia e introducendo modalità di lavoro flessibili, di promuovere la partecipazione delle donne al processo decisionale, e di lottare contro ogni forma di violenza contro le donne. Quest’ultima, al pari di altre forme di discriminazione, costituisce un vero ostacolo alla parità tra donne e uomini.

 L’ultima riforma dei Trattati, quella di Lisbona, ha avuto il merito non solo di aver attribuito alla Carta dei diritti fondamentali valore giuridico vincolante, ma anche di aver qualificato la parità tra donne e uomini come uno dei cinque valori su cui si fonda l’Unione europea (art. 2 TUE), e che la stessa Unione promuove nelle sue azioni (art. 3 TUE e art. 8 TFUE).

IMPLICAZIONI

Nella vicenda oggetto di approfondimento, una lavoratrice aveva prestato la propria attività lavorativa presso un ente pubblico di ricerca con 2 contratti a termine  e, in occasione del secondo contratto a tempo determinato, era venuta a trovarsi in stato di gravidanza. Al termine del secondo rapporto a tempo determinato la lavoratrice non aveva, però, ottenuto, a differenza di altri colleghi, la proroga del contratto di lavoro. La stessa aveva poi, altresì, partecipato, come esterna, a un concorso presso lo stesso ente pubblico di ricerca per un’assunzione, sempre a tempo determinato ma per la durata di un anno e, benché fosse stata dichiarata vincitrice di tale concorso e avesse inviato all’Amministrazione la documentazione per l’assunzione, non era stata mai convocata dall’ente per la sottoscrizione del contratto.
La lavoratrice aveva, quindi, agito in via ordinaria innanzi al Tribunale, chiedendo che fosse dichiarata la natura discriminatoria della mancata concessione della proroga dell’ultimo contratto a tempo determinato intercorso con l’ente pubblico, proroga invece concessa, a tutti i colleghi della stessa che si trovavano nella medesima situazione contrattuale.

 La nostra costituzione all’art 37 della Costituzione stabilisce che: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”.  Da una lettura della normativa sembrerebbe, pertanto, che almeno in Italia nessuna disparità esista. In realtà questa è una pratica molto distante dalla teoria dunque che crea barriere legali che limitano l’accesso delle donne al mondo del lavoro e ristringono la possibilità di arrivare ad una vera equità di genere. Ogni giorno, nel mondo del lavoro, le donne subiscono gli effetti della discriminazione di genere. La spiegazione di ciò è dovuta al fatto che purtroppo viviamo in una società prettamente maschilista sia sotto il punto di vista politico che religioso, ragion per cui la donna continua a subire discriminazioni.

 Viviamo, insomma, in una società in cui la disuguaglianza di genere penalizza la posizione della donna in tutti gli ambiti, economico, sociale e politico. L’Italia è all’ottantaduesimo posto per differenze di genere, e le distanze tra uomo e donna continuano ad essere sempre più profonde.

 La Cassazione ha trattato varie volte il tema della discriminazione sui luoghi di lavoro nei confronti delle donne e, con la sentenza n. 14206 del 5 giugno 2013, ha colto l’occasione per rafforzare il principio di uguaglianza espresso dalla legge che fa espresso divieto di trattare i lavoratori in maniera diversa in base al sesso ad esempio nell’affidare incarichi oppure nell’assegnare qualifiche etc.

 Non a caso, lo Statuto dei lavoratori legge 20.05.1970 n. 300 , G.U. 27.05.1970, precisa che: “art 15 atti discriminatori “è nullo qualsiasi patto od atto diretto a: a) subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte; b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero. Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica o religiosa.”

Orbene, nonostante, la normativa preveda la tutela dei diritti delle donne al pari di quelle degli uomini, le discriminazioni continuano ad esistere, diritti negati anche se riconosciuti come fondamentali.

Nel nostro ordinamento sussiste una  complessa stratificazione di norme, nazionali e sovranazionali, che reprimono la discriminazione collegata alla gravidanza e alla maternità, che, come noto, costituisce una forma particolare di discriminazione di genere. Tra le norme cardine europee del sistema vengono, quindi, individuate l’articolo 157, Tfue (Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea), che sancisce l’obbligo della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile e stabilisce, altresì, il fondamento giuridico generale per l’adozione di misure riguardanti l’uguaglianza di genere, incluse la parità e la lotta alla discriminazione sulla base della gravidanza o della maternità sul luogo di lavoro. Di primaria importanza anche l’articolo 33, paragrafo 2, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Cdfue o Carta di Nizza), che stabilisce come, per poter conciliare vita familiare e vita professionale, ogni persona abbia il diritto di essere tutelata contro il licenziamento per un motivo legato alla maternità e abbia, altresì, il diritto a un congedo di maternità retribuito e a un congedo parentale dopo la nascita o l’adozione di un figlio. Dai fondamentali trattati europei promanano, altresì, come noto, numerose Direttive adottate per arginare i fenomeni di discriminazione, che, in generale, vietano la differenza di trattamento fondata su taluni motivi oggetto di protezione (secondo un elenco circoscritto, che corrisponde all’elencazione contenuta nell’articolo 10, Tfue) e, tra essi, ovviamente il genere.

Nell’ordinamento italiano, viceversa, si devono tenere in considerazioni le seguenti disposizioni di Legge:

− il D.Lgs. 198/2006 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), volto alla tutela contro il comportamento discriminatorio fondato sul sesso e che promuove, sul piano sostanziale, le pari opportunità di carriera e di lavoro tra i sessi (lasciando a chi intraprende l’azione giudiziaria la scelta tra il rito ordinario del lavoro e un rito speciale appositamente delineato);

− il D.Lgs. 5/2010, che ha dato attuazione alla Direttiva 2006/54/CE relativa al principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego;

− -il D.Lgs. 150/2011, che, in materia di semplificazione dei riti civili, ha ricondotto il procedimento contro le discriminazioni al modello del rito sommario di cognizione, regolato dall’articolo 702 bisss., c.p.c..

La norma cardine del sistema  ancora oggi  è rappresentata dall’articolo 25 , comma 1, D.Lgs. 198/2006 (il già ricordato Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), che definisce la nozione di discriminazione diretta, stabilendo, al comma 16, che

“costituisce discriminazione diretta, ai sensi del presente titolo, qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l’ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga”,

mentre, per quanto riguarda il concetto di discriminazione indiretta, il comma 2 precisa come si abbia

“discriminazione indiretta, ai sensi del presente titolo, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari”;

inoltre, sempre l’articolo 25, al comma 2-bis7, prevede che, in ogni caso, costituisca discriminazione

“ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti.

RISOLUZIONE SECONDO NORMA

Come abbiamo avuto modo di delineare nel corso dell’approfondimento, al fine di valutare correttamente la questione posta, è necessario verificare se, in presenza di situazioni analoghe, sia stato posto in essere un atto o un comportamento pregiudizievole e, comunque, sia stato attribuito un trattamento meno favorevole alla lavoratrice in ragione del suo stato di gravidanza. Così, calandosi nella fattispecie di causa, è stato evidenziato come

“il mancato rinnovo di un contratto a termine ad una lavoratrice che si trovava in stato di gravidanza ben può integrare una discriminazione basata sul sesso, atteso che a parità della situazione lavorativa della medesima rispetto ad altri lavoratori e delle esigenze di rinnovo da parte della p.a. anche con riguardo alla prestazione del contratto in scadenza della suddetta lavoratrice, esigenze manifestate attraverso il mantenimento in servizio degli altri lavoratori con contratti analoghi, ben può essere significativo del fatto che le sia stato riservato un trattamento meno favorevole in ragione del suo stato di gravidanza”.

Nel caso in esame, ci si trova effettivamente di fronte a una fattispecie discriminatoria, la valutazione della Suprema Corte stessa si sposta, in concreto, sul piano probatorio: si deve, cioè, in concreto verificare se il lavoratore, in corso di causa, abbia provato o meno il c.d. fattore di rischio ovvero il trattamento che il lavoratore stesso ritiene essere meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe e non portatori del fattore di rischio; il datore di lavoro, viceversa, deve dimostrare le circostanze inequivoche, idonee a escludere – per precisione, gravità e concordanza di significato – la natura discriminatoria della condotta, in quanto esplicative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore che, privo del fattore di rischio, si fosse trovato nella stessa posizione. Ciò conformemente alla previsione dell’articolo 40D.Lgs. 198/2006, che stabilisce, in tema di onere della prova, come nei giudizi contro le discriminazioni legate al sesso, i criteri di riparto dell’onere probatorio non seguano i canoni ordinari, bensì criteri speciali che, però, non stabiliscono un’inversione dell’onere probatorio, ma solo un’agevolazione del regime probatorio in favore del ricorrente.

Così la Cassazione rileva che le circostanze addotte dalla lavoratrice – ovvero il proprio stato di gravidanza, la sospensione del rapporto di lavoro dal dicembre 2003 al settembre 2004 (in ragione del diritto alla conservazione del postoex articolo 56, D.Lgs. 151/2001) e l’avvenuta concessione del rinnovo del contratto a tutti gli altri colleghi, ad eccezione della ricorrente, che erano nella medesima situazione contrattuale – non sono mai state contestate dal datore di lavoro nel corso del giudizio.

Individuato, quindi, il petitum della causa intentata dalla lavoratrice nella denuncia di un trattamento discriminatorio per la negata permanenza nel rapporto di lavoro della stessa connessa alla sua situazione di maternità, a fronte, viceversa, del mantenimento in servizio di tutti gli altri colleghi dell’epoca, la Cassazione ha censurato la pronuncia d’Appello, laddove aveva ritenuto che, nel caso in esame, la lavoratrice avesse omesso ogni allegazione di specifiche circostanze di fatto essenziali per ottenere l’attenuazione del regime probatorio ordinario e ha censurato l’erroneità della pronuncia, che aveva stabilito che la lavoratrice avrebbe dovuto fornire elementi circa i contratti prorogati o rinnovati agli altri suoi colleghi per poterne dedurre che le causali apposte agli stessi fossero completamente sovrapponibili al contratto stipulato dalla prima.

RISOLUZIONE CASO PRATICO

Alla luce delle premesse normative e delle considerazioni esposte in precedenza dunque, è accoglibile il ricorso della lavoratrice in ragione del fatto che, a fronte dell’avvenuta deduzione in causa da parte della lavoratrice delle circostanze minime essenziali da cui presuntivamente far derivare la lamentata discriminazione, l’onere di provare le circostanze negative gravava viceversa sul datore di lavoro, onere in nessun modo assolto dall’ente datore di lavoro. Sentenza, quindi, cassata e causa rinviata alla Corte d’Appello di Roma, per un nuovo esame della controversia sulla base dei principi delineati dalla Corte di legittimità

Dal punto di vista processuale, la pronuncia esaminata si pone nell’alveo di consolidata giurisprudenza, secondo cui le Direttive europee in materia e le Leggi italiane di recepimento impongono l’introduzione di un meccanismo di agevolazione probatoria dell’onere gravante sull’attore: ciò prevedendo che questi alleghi e dimostri circostanze di fatto dalle quali possa trarsi la conseguenza che la discriminazione abbia avuto luogo, così da far scattare il contrario onere probatorio a carico del datore di lavoro di dimostrare l’insussistenza della discriminazione.
Sul piano processuale, in sostanza, il lavoratore deve quindi provare il “fattore di rischio”, ovvero il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe e non portatori di tale fattore di rischio, deducendo la correlazione significativa fra questi elementi che rende plausibile la discriminazione. Viceversa, il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze non equivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria del recesso, in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio, che si fosse trovato nella stessa posizione.

Anche la giurisprudenza di merito si è espressa al riguardo, precisando come sussista una discriminazione diretta quando, sulla base di uno dei fattori protetti, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stato o sarebbe trattato un terzo comparabile e l’onere della prova in punto di discriminazione grava sul lavoratore, che, nelle ipotesi di discriminazione diretta, è chiamato a dimostrare la ricorrenza di uno dei fattori di protezione, il trattamento meno favorevole assunto nei suoi confronti, l’insussistenza del fattore di rischio in capo ai soggetti che avrebbero beneficiato del trattamento più favorevole e la compatibilità del trattamento meno favorevole con il fattore medesimo. Nelle ipotesi, poi, di licenziamento discriminatorio, rileva il mero fatto oggettivo che il lavoratore non avrebbe subito il trattamento sfavorevole se non si fosse trovato nella situazione integrante il fattore di rischio contemplato dall’ordinamento: in questo caso è, quindi, a carico del datore di lavoro l’onere sia della prova della giusta causa o del giustificato motivo del licenziamento, in base all’articolo 5, L. 604/1966, sia della prova dell’assenza della discriminazione, mentre ricade sul lavoratore l’onere di dimostrare il fattore di rischio e allegare i dati di fatto significativi della disparità di trattamento.
Nonostante la copiosa disciplina in materia nella società odierna, purtroppo, le discriminazioni esistono e si evidenziano maggiormente in determinati momenti. Oggi tutto il mondo è alle prese con la lotta al Covid-19, e la difficoltà e le preoccupazioni per tutte le comunità prendono il sopravvento rispetto ad altre problematiche. La pandemia e le misure di contenimento stanno colpendo tutti, senza eccezioni. Eppure, le donne dovranno maggiormente, rispetto agli uomini, subire una serie di conseguenze imposte dalle misure contenitive. Molti potrebbero pensare che quello della disparità tra uomo e donna non sia un problema presente in tutte le società. Rispetto a cinquant’anni fa le donne lavorano, in alcuni casi anche a tempo pieno; hanno la possibilità di scegliere da sole il proprio destino, di divorziare dal proprio compagno e di vestire come meglio credono. Si tratta senza dubbio di conquiste importanti, che tuttavia non annullano del tutto le differenze di genere ancora presenti anche in Occidente. Spesso quando si parla del problema femminile si parla soprattutto di violenza, ma non di minore importanza è la discriminazione. Orbene, determinati atteggiamenti ed il perpetrarsi di atti discriminatori non è inculcare nelle generazioni presenti e future il concetto che il lavoro dell’uomo debba essere considerato più importante rispetto a quello delle donne? Nel nostro ordinamento, oltre alla discriminazione diretta, vi è quella indiretta, si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari. Ebbene la prassi continua ad insegnare che debbano essere le donne a doversi sacrificare, a doversi far carico della casa, della famiglia e dei figli.
Ciò che occorre è senz’altro una politica che stimoli l’informazione e la stampa a tenere sistematicamente conto della parità di genere, ma occorre anche indirizzare l’attenzione sull’istruzione perché si inizi, fin dalla più giovane età, un percorso educativo fondato sulla parità, al fine di eliminare gli stereotipi e determinare così una vera e propria modifica culturale. I rigidi ruoli di genere possono infatti ostacolare le scelte individuali e limitare il potenziale delle future donne e dei futuri uomini. L’ineguaglianza rappresenta, infatti, un peso per un’economia che ambisce ad essere intelligente, sostenibile e solidale e che intende conseguire elevati livelli di occupazione, produttività e coesione sociale. Il potenziale e i talenti delle donne devono essere utilizzati più largamente e più efficacemente.
 Pertanto, si chiede una maggiore attenzione, anche nei casi di urgenza e di necessità, alla questione della parità di genere.