Licenziamento per giusta causa durante la malattia: il rilievo delle condotte extralavorative

Un lavoratore di una ditta specializzata in imballaggi di cartone si poneva in malattia per 20 giorni a causa di una lombosciatalgia che lo aveva colpito, lo stesso  però durante il periodo di assenza dal lavoro svolgeva attività non compatibili con lo stato di malattia. Il rappresentante legale della società si rivolgeva dunque al suo professionista di riferimento onde analizzare la presenza degli estremi per comminare al dipendente un  licenziamento per giusta causa.

CONTESTO NORMATIVO

Come noto, durante la malattia il prestatore di lavoro ha certamente diritto al mantenimento del rapporto di lavoro, ma non incondizionatamente.
Le regole previste dall’articolo 2110 cod. civ. (che prevalgono, in quanto speciali, sia sulla disciplina dei licenziamenti individuali – di cui alle L. 604/1966, L. 300/1970 e L. 108/1990 – che su quella degli articoli 1256 e1464, cod. civ.) “si sostanziano nell’impedire al datore di lavoro di porre fine unilateralmente al rapporto sino al superamento del limite di tollerabilità dell’assenza (cosiddetto comporto) predeterminato dalla legge, dalle parti o, in via equitativa, dal giudice, nonché nel considerare quel superamento unica condizione di legittimità del recesso”.

Tali regole sono finalizzate a contemperare “gli interessi confliggenti del datore di lavoro (a mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce) e del lavoratore (a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento e l’occupazione), riversando sull’imprenditore – in parte e per un tempo la cui concreta determinazione è rimessa gradatamente alla legge, ai contratti collettivi, agli usi, all’equità – il rischio della malattia del dipendente”.

In questo quadro, il superamento del periodo di comporto è condizione “oggettiva” sufficiente di legittimità del recesso, non essendo necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo, divenendo, pertanto, irrilevante ogni valutazione sulla condotta delle parti. E, dal momento che l’assenza rappresenta una mera conseguenza necessitata della malattia, non ha nemmeno rilievo, ai fini della legittimità del recesso, un’indagine sulle cause della assenza stessa, che “nella logica dell’istituto devono ricondursi allo stato patologico del lavoratore, incompatibile con la prestazione lavorativa.

D’altro canto, il rapporto di lavoro, anche durante la malattia, rimane pur sempre in vita, ragion per cui il prestatore è pur sempre sottoposto ad alcune fondamentali obbligazioni che caratterizzano il medesimo rapporto. Certo non è sottoposto all’obbligazione di prestazione dell’attività lavorativa o a tutte quelle obbligazioni connesse con quest’ultima (ad esempio, il dovere di diligenza nello svolgimento dell’attività lavorativa o il dovere di obbedienza), ma esistono anche doveri la cui osservanza permane nel periodo di sospensione dell’attività lavorativa, osservanza che costituisce un elemento di intrinseca coerenza con la condizione stessa di malattia.

In questo contesto di attività “extra malattia”, 2 sono le possibili direttrici di tipo disciplinare, tali da giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà: 1. qualora l’attività esterna sia di natura tale da far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione;

2. qualora l’attività, “in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio, con conseguente irrilevanza della tempestiva ripresa del lavoro alla scadenza del periodo di malattia”, quindi andando nella direzione di una valutazione che viene effettuata ex ante rispetto alle conseguenze concrete dell’attività sulla malattia (e sul suo eventuale prolungamento quale effetto della medesima attività).

Ciò che emerge da un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato è che lo svolgimento di altra attività (anche di tipo lavorativo) da parte del dipendente assente per malattia non costituisce automaticamente illecito, ma certo può portare all’apertura di una procedura disciplinare e, da ultimo, a un licenziamento, come accade nel caso in esame: pur non vertendosi in un’ipotesi fraudolenta, ovvero nell’ipotesi di pura simulazione della condizione di malattia, la condotta del lavoratore è stata comunque valutata illegittima, in quanto in violazione dei principi di correttezza e buona fede.

IMPLICAZIONI

Nella  questione oggetto di approfondimento,  il prestatore di lavoro ricorrente deduceva che le condotte poste in essere durante il periodo di malattia costituivano meri incombenti di vita quotidiana, che non potevano essere validamente sussunti nella nozione di giusta causa di licenziamento. In particolare, diversamente da quanto accertato dai giudici del merito, secondo i quali il ricorrente aveva movimentato 2 sacchetti di terriccio durante il periodo di malattia, si argomenta in ordine alla mancanza di prova circa la reale portata della condotta descritta, poiché le immagini che riproducevano i sacchetti erano sfocate, poco chiare e da esse non era desumibile il peso effettivo.

In secondo luogo, si deduceva l’effettività dello stato patologico da cui era affetto il ricorrente, da ritenersi pienamente comprovata in forza delle certificazioni mediche versate in atti, sicché la statuizione con la quale la Corte, condividendo l’opinione espressa dal primo giudice, aveva ipotizzato la simulazione dell’inabilità da parte del ricorrente, era inficiata da evidente illogicità.  

La Corte ha poi confermato, rafforzando un principio invalso in giurisprudenza, come lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del lavoratore in malattia rappresenti una grave violazione degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, nonché dei doveri di correttezza e buona fede, sia nell’ipotesi in cui “tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, [sia] nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio “ex ante” in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio”.

La specificità risiede nel fatto che ci si confronta con un “meccanismo” che porta a valutare, appunto, ex ante il nesso fra la medesima attività extralavorativa, la patologia in corso e le mansioni svolte, nella misura in cui possa essere pregiudicata o ritardata la guarigione o il rientro in servizio, addirittura con conseguente irrilevanza della tempestiva ripresa del lavoro alla scadenza del periodo di malattia. In ciò, peraltro, risiede l’aspetto più rilevante della pronuncia, la quale si collega a un ormai consolidato orientamento che conta ormai svariati precedenti: la violazione dei principi di diligenza, fedeltà, correttezza e buona fede non si connette necessariamente a una condotta fraudolenta dolosa, dalla quale dedurre addirittura l’inesistenza della condizione di malattia, bensì, seppur a un livello di gravità sicuramente inferiore, anche a una condotta caratterizzata da “colpa”.

Dunque, lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia è, per la Corte, certamente idoneo a giustificare il recesso datoriale, purché nella contestazione dell’addebito, “emerga con chiarezza il profilo fattuale, così da consentire una adeguata difesa da parte del lavoratore”. In tal modo la Corte ha evidenziato e ribadito l’intima connessione sussistente tra il principio di immutabilità della contestazione (disciplinare) e il diritto di difesa del lavoratore, logicamente incanalando la fattispecie in esame a un caso disciplinare, ossia legato a una condotta del lavoratore suscettibile di accertamento e valutazione dal punto di vista della violazione di obbligazioni scaturenti dal rapporto di lavoro.

In tal senso, la Suprema Corte aderisce al procedimento logico-giuridico del giudice del secondo grado (così anche del primo, stando a quanto si ricava dalla parte motiva della pronuncia in commento), il quale, valutate le emergenze istruttorie, aveva, infatti, sottolineato come la società datrice di lavoro avesse contestato specificamente al dipendente di aver svolto, sin dai primi giorni di congedo, una serie di attività faticose e intense, che erano state oggetto di puntuale valutazione da parte del nominato ausiliare medico-legale, il quale aveva espressamente considerato che le attività svolte dal ricorrente durante il periodo di malattia (ritenute dai giudici del merito dimostrate alla stregua dei dati documentali acquisiti) avrebbero prolungato il periodo di malattia.

Il datore di lavoro avrebbe, conseguentemente, esercitato correttamente il potere disciplinare, che è forse la prerogativa che maggiormente caratterizza il rapporto di lavoro subordinato, atteso che rappresenta una “potestà” del datore di lavoro sul dipendente, per quanto circoscritta essa sia, per evitare di ammettere poi la sussistenza di posizioni speciali del datore nella fase esecutiva del contratto, riconoscendogli spazi più ampi di quelli che sono propri di ogni creditore e tali da esulare rispetto alle esigenze di corretto svolgimento dell’attività lavorativa.
In questo contesto si manifesta l’onere fondamentale in tema di licenziamento/sanzione disciplinare posto a carico del datore di lavoro, quello della previa contestazione dell’addebito al lavoratore, contestazione che deve essere contemporaneamente specifica, completa e immutabile, ovvero definitiva nel momento in cui viene elevata al prestatore di lavoro e nel momento dell’irrogazione dell’eventuale sanzione, nonché tempestiva rispetto al momento in cui sono stati o avrebbero potuto essere scoperti i fatti oggetto di addebito, fermo restando che tale requisito è stato inteso dalla giurisprudenza in senso “relativo”, ovvero tenendo conto che l’intervallo di tempo necessario per l’accertamento dell’addebito da contestare va valutato in riferimento sia alle caratteristiche della condotta in esame, che all’articolazione strutturale e alle dimensioni dell’impresa, che alla tipologia e complessità delle mansioni e della posizione funzionale del prestatore di lavoro.
Secondo i giudici di legittimità, il principio di corrispondenza tra addebito contestato e addebito posto a fondamento della sanzione disciplinare, che vieta il licenziamento sulla base di fatti diversi da quelli contestati, deve ritenersi violato solo qualora il datore di lavoro alleghi, nel corso del giudizio, circostanze nuove, atte a fornire cioè, in violazione del diritto di difesa, una diversa valutazione dei fatti addebitati. Diversamente, nel caso di specie viene rilevato

“come la società datrice di lavoro avesse contestato specificamente al dipendente, di aver svolto, sin dai primi giorni di congedo, una serie di attività faticose ed intense, che erano state oggetto di puntuale valutazione da parte del nominato ausiliare, il quale aveva espressamente considerato che le attività svolte dal ricorrente durante il periodo di malattia (ritenute dai giudici del merito dimostrate alla stregua dei dati documentali acquisiti), avrebbero prolungato il periodo di malattia”.

D’altro canto, esiste anche un “riverso della medaglia”, costituito, a contrariis, dalle attività che il dipendente, seppur malato, può svolgere senza rischiare il licenziamento (o, eventualmente, andando incontro a un licenziamento contestabile).

RISOLUZIONE SECONDO NORMA

Come abbiamo avuto modo di delineare nel corso dell’approfondimento la violazione degli obblighi contrattuali e dei doveri di correttezza e buona fede da parte del lavoratore assente per malattia è certamente esclusa ove il lavoratore, nello svolgimento di ogni ulteriore attività, adotti ogni opportuna cautela al fine di concludere al più presto lo stato di malattia e di recuperare l’idoneità al lavoro.

In altri termini, la Corte ha puntualizzato come l’espletamento di altra attività, da parte del lavoratore durante lo stato di malattia, non sia di per sé idoneo a violare i doveri di correttezza e buona fede né a rappresentare una giusta causa di recesso, ma può certamente costituire una grave violazione dei predetti obblighi, ove si riscontri che l’attività espletata rappresenti indice di una scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute ed ai relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione.

Pur non costituendo tema centrale della pronuncia, da un punto di vista pratico assume un certo rilievo quanto dalla Corte statuito in materia di riparto dell’onere probatorio.

Come noto, nel campo del licenziamento vige l’inversione dell’onere della prova, rispetto all’ordinario meccanismo civilistico: sul datore di lavoro incombe l’onere di allegare e dimostrare la sussistenza delle ragioni di fatto e di diritto alla base della (asserita) legittimità del recesso.

Nel contesto del licenziamento durante la malattia per le ragioni soggettive che stiamo esaminando, la dinamica probatoria è parzialmente diversa, circostanza confermata anche dalla Suprema Corte. Quest’ultima, infatti, da un lato, partendo dal presupposto che la patologia impeditiva considerata dall’articolo 2110cod. civ., che riversa, entro certi limiti, sul datore di lavoro il rischio della temporanea impossibilità lavorativa, va intesa non come stato che comporti l’impossibilità assoluta di svolgere qualsiasi attività, ma come stato impeditivo delle normali prestazioni lavorative del dipendente, osserva come, nel caso di un lavoratore assente per malattia il quale sia stato sorpreso nello svolgimento di altre attività, spetta al dipendente dimostrare la compatibilità di dette attività con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa, la mancanza di elementi idonei a far presumere l’inesistenza della malattia (quindi, una sua fraudolenta simulazione) e la loro inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie psico-fisiche, restando peraltro la relativa valutazione riservata al giudice del merito all’esito di un accertamento da svolgersi non in astratto, ma in concreto, con giudizio ex ante.

D’altro canto ha precisato come, anche indipendentemente dall’adesione al principio secondo cui, in materia di licenziamento per giusta causa, graverebbe sul datore di lavoro l’onere di provare che lo svolgimento da parte del lavoratore di un’attività extralavorativa durante lo stato di malattia abbia inciso negativamente sulla salute dello stesso in termini di ritardata guarigione, contrastando con gli obblighi di buona fede e correttezza, debba farsi luogo, in ottica di contemperamento, al principio di acquisizione probatoria, fondato sul principio costituzionale del giusto processo, secondo cui il giudice ha il dovere di pronunciare nel merito utilizzando tutto il materiale probatorio acquisito

“da qualunque parte esso provenga – con una valutazione non atomistica ma globale nel quadro di una indagine unitaria ed organica, suscettibile di sindacato in sede di legittimità, per vizi di motivazione e, ove ne ricorrano gli estremi, per scorretta applicazione delle norme riguardanti l’acquisizione della prova”.

RISOLUZIONE CASO PRATICO

Alla luce delle premesse normative e delle considerazioni esposte in precedenza dunque, abbiamo visto come lo svolgimento di attività (non solo lavorativa) durante la malattia può giustificare il licenziamento per violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e di fedeltà.

Questa regola, però, proprio in quanto norma comportamentale generale, dev’essere poi calata nella realtà, che, come ben sappiamo non solo è variegata, ma variegate sono le dinamiche processuali di valutazione delle singole fattispecie e delle relative risultanze istruttorie, così come il giudizio dell’organo giudicante.

 In generale, si può rilevare che sussistono pochi dubbi quando i casi sono eclatanti.

Si pensi, ad esempio, da un lato, ai (tanti) casi di prestazione di attività lavorativa presso terzi con lo svolgimento delle medesime mansioni, essendo di per sé idonea a compromettere o comunque ritardare la guarigione, che legittima il licenziamento del dipendente; dall’altro, anche il semplice svolgimento di attività extralavorativa in contrasto con lo stato di malattia o infortunio, in quanto idonea a comportare il pericolo di aggravamento dei postumi della malattia, porta alla medesima conseguenza.

A questo proposito, siano di aiuto per (cercare di) individuare il sottile discrimine fra attività extralavorative consentite e sanzionate: è stato considerato legittimo il licenziamento di un dipendente in malattia per distorsione della caviglia in ragione dello sport praticato (calcio), integrando ciò una giusta causa di recesso datoriale, anche se il Ccnl non elencava tale ipotesi fra quelle che comportano la sanzione espulsiva, mentre è stato giudicato illegittimo il licenziamento di un lavoratore che, durante la malattia (dovuta a una distorsione al ginocchio), era stato sorpreso a svolgere una serie di attività ricreative (tra cui brevi passeggiate e bagni di mare), che, secondo il datore, avrebbero dimostrato la sua capacità di svolgere anche la prestazione lavorativa e che venivano considerati dalla Suprema Corte quale “moderata attività fisica” non incompatibile “con le terapie di recupero della tonicità muscolare”, e, quindi, tali da non configurare una violazione dei doveri di correttezza e buona fede in capo al prestatore di lavoro.

Alla luce di questi brevi richiami giurisprudenziali, quale potrebbe essere una linea guida di comportamento più semplice e lineare possibile?

Una possibile risposta pratica potrebbe essere, molto semplicemente, di attenersi alla regola di buon senso e buona fede: tenere una condotta coerente con la condizione di malattia, ovviamente sul presupposto che tale condizione sussista realmente.

Ad esempio, se si è affetti da lombosciatalgia potrebbe essere incoerente movimentare pesi; se si soffre di problemi di respirazione potrebbe essere incoerente fare camminate in montagna o partecipare a una partita di calcio, e così via.