Dequalificazione professionale: il mobbing è da provare

La Corte di Cassazione con ordinanza 21865 del 11 luglio 2022 ha specificato che la dequalificazione professionale non è di per sé elemento sufficiente a integrare la fattispecie del mobbing, per la cui configurabilità va provata l’esistenza di un disegno persecutorio del datore di lavoro.

Un medico citava in giudizio l’Azienda Ospedaliera datrice di lavoro per vederla condannare al risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, derivanti dall’asserita dequalificazione professionale e dal mobbing di cui lo stesso dottore si dichiarava vittima da più anni.

La Corte di appello di Brescia, in particolare, oltre a rilevare che il danno alla professionalità e alla carriera del medico era stato già esaminato e valutato in via definitiva, sia con riferimento al passato, che in proiezione futura, aveva osservato che per ottenere un nuovo risarcimento per danno alla professionalità il medico avrebbe dovuto fornire prove e allegazioni degli ulteriori pregiudizi arrecati per effetto del protrarsi del demansionamento. Per converso, i fatti allegati dal medico erano insufficienti a configurare il mobbing in quanto potevano ricondursi a “pochi avvenimenti meramente episodici, totalmente privi di un intento vessatorio e connessi a normali problematiche lavorative”.

Il medico, inoltre, non aveva lamentato un aggravamento del danno alla salute, ma solo un danno di tipo “esistenziale”, a dimostrazione del quale non aveva presentato “pertinente e idonea allegazione”, alla cui mancanza non poteva sopperirsi con la mera produzione di documentazione medica.

Per il mobbìng lavorativo, ricorda il Giudice di legittimità, non “è condizione sufficiente l’accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, essendo a tal fine necessario che il lavoratore alleghi e provi  con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione” (Cass. n. 10992/2020).

Inoltre per la sua configurabilità deve ricorrere “l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio del datore medesimo” (Cass. n. 12437/ 2018).

Infine, si ricorda che ai fini del risarcimento del danno, “il giudice del merito è tenuto a valutare se i comportamenti denunciati possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e se siano causalmente ascrivibili a responsabilità del datore che possa esserne chiamato a risponderne nei limiti dei danni a lui specificamente imputabili” (Cass. n. 4222/ 2016).