Mobbing: gli orientamenti di dottrina e giurisprudenza

Sempronio, dipendente con qualifica di ingegnere, presso la società Avios s.r.l. chiedeva domanda di superiore  inquadramento e danno da mobbing nei confronti della sua azienda datrice di lavoro, specificando tutte le mansioni e le attività che gli erano state assegnate fin dalla data di assunzione.
Analizziamo dunque il caso in oggetto con particolare riguardo alle caratteristiche e alle condizioni del danno da mobbing.

CONTESTO NORMATIVO

Come noto, nel nostro ordinamento la figura del mobbing, non avendo ancora ricevuto una definizione di legge, nonostante i numerosi progetti di legge in materia, è stata delineata dalla giurisprudenza sulla base del disposto dell’articolo 2087 , cod. civ., norma chiave a tutela della salute e dell’integrità psicofisica del nostro ordinamento. Possiamo affermare che l’orientamento giurisprudenziale oggi maggioritario ritiene che il mobbing consista in:

“Una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità”.

Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti:

a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;

b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;

c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psicofisica del lavoratore;

d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.  

Quanto agli elementi costitutivi, vista e considerata anche la indeterminatezza del come si dispiega in concreto questa figura, a livello meramente teorico è possibile distinguerne almeno 3:

1) l’ambito lavorativo;

2) la frequenza, la durata, la reiterazione ed il particolare tipo delle azioni vessatorie;

3) l’intento persecutorio 1) Innanzitutto, quando ci si riferisce al concetto del mobbing ci si riferisce quasi esclusivamente alla condotta illecita predetta che ha origine prevalentemente in ambito lavorativo o aziendale. Ciò detto, risponde al vero che la giurisprudenza ha applicato la definizione “mobbing” anche a condotte che esulano dall’ambito lavorativo (soprattutto nel caso di vessazioni in famiglia o in ambito sportivo), tuttavia tutto lo studio ed il dibattito dottrinale si è basato (quasi) solo ed esclusivamente dall’analisi della figura “tipica” del mobbing lavorativo.

2) Quanto al requisito oggettivo, la frequenza e la durata dell’illecito sono parametri fondamentali per distinguere il mobbing da altre fattispecie, quali ad esempio semplici dissidi o litigi in ambito lavorativi. Sulla frequenza, in genere gli atti ostili devono avere una cadenza di almeno alcune volte al mese.
Invece il protrarsi nel tempo di dette azioni deve protrarsi un minimo di 6 mesi per alcuni autori. Mentre per altri tali condotte illecite devono continuare per almeno 3 mesi. Nell’ambito di tale periodo, quindi le condotte lesive devono essere reiterate, sistemiche. I comportamenti, in esame devono quindi essere “indizio” di un particolare disegno persecutorio verso la vittima.

3) Affinchè sussista la figura del mobbing deve ricorrere anche un elemento psicologico, che può essere inteso come un particolare e specifico disegno o intento persecutorio nei confronti della vittima designata.
Nell’ambito di ciò rientra la volontà, da parte del reo, di provocare in genere l’allontanamento del lavoratore considerato o anche di ostacolare la carriera di un particolare dipendente. Inoltre, sussiste il mobbing anche quando le condotte lesiva tenute non sono connotate da un obiettivo specifico, salvo quello comunque sempre ricorrente che è il danneggiare la vittima, ma sono dettate da aspetti emotivi più o meno consci, come, ad esempio, l’avversione per una determinata persona o la discriminazione razziale, religiosa, politica ecc.

Riguardo all’onere probatorio, questo è ascrivibile in primis esclusivamente in capo al lavoratore-vittima, il quale deve dimostrare in giudizio tutto quanto ha patito a seguito o per causa della suddetta condotta illecita.
Infatti, l’onere della prova su tutto compete innanzitutto alla vittima denunciante. A riguardo, la Giurisprudenza ha più volte ripetuto che il lavoratore che lamenti di aver subito comportamenti mobbizzanti e che intenda chiedere in giudizio il risarcimento del danno è gravato dall’onere di dare la prova delle condotte realizzate in suo danno dal reo, del danno patrimoniale o esistenziale subito ed infine dell’eventuale e possibile incidenza ed effetto negativo di tale danno sulla sua integrità psico-fisica (ex plurimis Cons. Stato, Sez. V, 27/05/2008, n.2515). Più in particolare, la Suprema Corte, nella sent. 19053/05, trattando specificatamente il problema dell’onere probatorio a carico del lavoratore, ha stabilito che “in tema di licenziamento individuale per giusta causa la domanda di risarcimento del danno proposta dal lavoratore per “mobbing” e conseguente malattia depressiva, in relazione a comportamenti datoriali che abbiano determinato il dipendente alle dimissioni, è soggetta a specifica allegazione e prova in ordine agli specifici fatti asseriti come lesivi”. Inoltre, a carico della vittima sussiste l’onere di provare gli episodi vessatori, la reiterazione degli stessi, il loro carattere pretestuoso, la circostanza che gli stessi appaiano complessivamente finalizzati a danneggiarlo, nonchè la prova del collegamento tra tali condotte e il danno subito, danno che naturalmente deve poterne costituire una conseguenza immediata e diretta. Una volta fornite queste, peraltro non semplicissime, prove, l’esistenza del pregiudizio all’integrità psico-fisica può allora e comodamente essere ricavata tramite semplici presunzioni. Ai fini probatori è inoltre importante
sottolineare che, in materia di mobbing, non assume rilievo l’elemento psicologico del reo con riferimento alle singole condotte, ma occorre piuttosto provare di aver subito un complesso dei comportamenti tali da dar vita nell’insieme ad un’azione illecita. – D’altro canto, l’agente-vessatore deve solo provare che le condotte indicate dal lavoratore non possono essere qualificate come “mobbing”, che non solo collegate tra di loro, che non sussiste nessun intento persecutorio e che per ciascuna di esse esiste una valida spiegazione.

IMPLICAZIONI

Nella  questione oggetto di approfondimento, Sempronio, dipendente con qualifica di ingegnere, presso la società Avios s.r.l. chiedeva domanda di superiore  inquadramento e danno da mobbing nei confronti della sua azienda datrice di lavoro, specificando tutte le mansioni e le attività che gli erano state assegnate fin dalla data di assunzione.
Come noto in materia di lavoro, ai fini della configurabilità di un’ipotesi di mobbing, non è condizione sufficiente l’accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, essendo, a tal fine, necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione.

Il fenomeno mobbing ha manifestato nel corso degli ultimi decenni una significativa espansione, evidenziata sia dalla cospicua riflessione dottrinale che dall’ormai diffusa elaborazione giurisprudenziale. Nel momento in cui si accorda tutela ad un lavoratore rimasto vittima di tale fenomeno, va tuttavia messa in evidenza la variabilità sia dei riferimenti normativi, che delle tecniche di tutela.

La disciplina del contratto di lavoro  è indubbiamente caratterizzata dalla asimmetria o disuguaglianza dei contraenti. Il legislatore, attesa l’inferiorità tecnico funzionale  del lavoratore subordinato, è intervenuto a riequilibrare le posizioni contrattuali, indicando  il  fabor laboris  come criterio guida per  sostenere il contraente più debole. La sfera datoriale pertanto, come  espressione di potere privato, viene notevolmente compressa e condizionata attraverso l’uso di diversi strumenti normativi.

L’elemento soggettivo della fattispecie in esame  consiste dunque sulla dimostrazione da parte del lavoratore dell’intento lesivo da parte del datore di lavoro nei suoi confronti. Ciò è stato affermato anche in altre occasioni dalla giurisprudenza di legittimità:

“Ai fini della configurabilità del mobbing l’elemento qualificante, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica”.

Ci si riferisce al c.d. elemento teleologico ovvero all’intento di causare un danno al lavoratore, emarginandolo dal posto di lavoro, ponendo in essere atti o comportamenti finalizzati a farlo dimettere.

Ricorrendo a un istituto tipico del diritto penale, la giurisprudenza lavoristica, in alcune sentenze, ha fatto riferimento alla necessità della prova del dolo dell’agente non solo nella sua forma generica (“condotta intenzionalmente diretta a determinare una pressione morale e psichica nei confronti di chi la subisce”), ma addirittura nella sua forma di dolo specifico (“pressione diretta alla persecuzione od all’emarginazione del dipendente”) Si tratta, in questo caso, della c.d. concezione soggettiva del mobbing, che dà rilievo al c.d. animus nocendi del soggetto agente, che lo distinguerebbe da singoli atti illegittimi.

La giurisprudenza maggioritaria afferma che: “Uno o più atti illegittimi di gestione del rapporto in danno del lavoratore non sono, di per sé, sintomatici della presenza di un comportamento mobbizzante, occorrendo per la sua realizzazione, un complessivo disegno persecutorio e discriminatorio, qualificato da comportamenti materiali ovvero da provvedimenti caratterizzati da finalità di volontaria ed organica vessazione con connotazione emulativa e pretestuosa”.

Secondo i giudici, è, quindi, necessario un fil rouge che unisca i vari elementi, un disegno persecutorio e discriminatorio finalizzato a vessare il lavoratore indesiderato. L’elemento soggettivo consentirebbe di cogliere in uno o più provvedimenti e comportamenti, o anche in una sequenza frammista di questi ultimi, “quel disegno unitario teso alla dequalificazione, svalutazione od emarginazione del lavoratore dal contesto organizzativo nel quale è inserito e che è imprescindibile ai fini della configurabilità del mobbing”.

Così, per esempio, non costituirebbe mobbing l’atteggiamento aggressivo e burbero del datore di lavoro quando sia rivolto a tutti i lavoratori e non a uno specificamente, in quanto ciò dimostrerebbe l’assenza di un intento persecutorio nei confronti del singolo lavoratore.

La teoria soggettiva sarebbe funzionale (anche) al contenimento del rischio di una possibile deriva verso una sorta di responsabilità oggettiva del datore, riuscendosi così a selezionare “solo quelle condotte che fuoriescono dal normale andamento fisiologico del rapporto di lavoro”.

RISOLUZIONE SECONDO NORMA

Come abbiamo avuto modo di delineare nel corso dell’approfondimento la teoria soggettiva sarebbe funzionale (anche) al contenimento del rischio di una possibile deriva verso una sorta di responsabilità oggettiva del datore, riuscendosi così a selezionare “solo quelle condotte che fuoriescono dal normale andamento fisiologico del rapporto di lavoro”.

La teoria soggettiva si espone, però, a critica laddove grava il lavoratore di un onere probatorio particolarmente complesso, se non impossibile: quello di dimostrare l’intento vessatorio del datore di lavoro o dei superiori gerarchici.

Ciò pone numerosi problemi sotto il profilo dell’onus probandi, che secondo la citata giurisprudenza grava sul lavoratore che chiede il risarcimento dei danni. Salvo casi, piuttosto improbabili, in cui la vittima entri in possesso di dichiarazioni del datore di lavoro dal valore confessorio (ad esempio, sms o email in cui affermi di volersi liberare del lavoratore), si potrebbe trattare di una vera e propria probatio diabolica, ovvero sostanzialmente impossibile.

Il nostro ordinamento prevede, naturalmente, la possibilità per il lavoratore di ricorrere alla prova per presunzioni ai sensi dell’articolo 2029, cod. civ. (presunzioni che debbono essere “gravi, precise e concordanti”), che soccorreranno il dipendente senza particolari problemi nei casi più gravi (in cui i comportamenti del datore di lavoro o dei superiori non possano essere spiegati altrimenti se non per un intento vessatorio), ma più difficilmente potranno essere invocate nei casi di c.d. mobbing sottile, ovvero quando i comportamenti siano meno evidenti, ma comunque idonei a ledere la salute del lavoratore.

In dottrina, sin da tempo risalente, è, quindi, emerso un orientamento c.d. oggettivo, che prescinde dall’elemento soggettivo per la configurazione del mobbing, affermando che  l’idea di valorizzare a fini definitori l’elemento soggettivo della condotta non solo è incompatibile con il diritto vigente, ma condizionerebbe ogni tutela alla difficile prova di tale elemento, per cui ciò che conta è l’oggettività della condotta, come è già stato chiarito per le discriminazioni e per il comportamento antisindacale”.

Ancora, in dottrina si è osservato che sussumere la fattispecie mobbing all’interno dell’articolo 2087, cod. civ., significa

“configurare una responsabilità di tipo contrattuale con conseguente onere probatorio fondato sulle regole degli artt. 1218 e 1223 c.c., con parziale inversione dell’onere della prova ai sensi dell’art. 2697, comma 1, c.c. per quanto attiene alla presunzione legale della colpa”.

La giurisprudenza non ha mancato di accogliere alcuni dei rilievi mossi dalla dottrina e ha cercato di attenuare il rigore relativo all’elemento soggettivo di cui si è detto, affermando che:

“Il giudice del merito, pur nell’accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall’interessato e quindi della configurabilità di una condotta di “mobbing”, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati – esaminati singolarmente, ma sempre in sequenza causale – pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili”.

Secondo tale orientamento, al lavoratore è sufficiente dimostrare l’idoneità offensiva della condotta datoriale, anche tramite prova presuntiva, ricavabile da quelle caratteristiche oggettive – di norma ripetitività, sistematicità, pretestuosità – senza dover fornire anche la prova di un intento persecutorio.

Se sul piano teorico la risoluzione del problema appare facile, sul piano concreto neppure in questo caso sarà semplice per il giudice stabilire quando determinati comportamenti possiedano un’idoneità offensiva tale da recare oggettivo danno al lavoratore. Sul punto, si potrà, allora, ricorrere anche all’aiuto della scienza medica, tramite apposita CTU, la quale verifichi se certi atti o comportamenti siano idonei, secondo la specifica competenza medico-psichiatrica, a creare nel lavoratore un danno alla salute o meno. Ciò senza delegare, naturalmente, ciò che è di competenza all’operatore giuridico (in particolare, la sussunzione della fattispecie mobbing rilevante per l’ordinamento giuridico) allo psichiatra, ma anche riconoscendo che si tratta pur sempre di problematiche afferenti il piano psichico del soggetto, come tali studiate e conosciute dalla scienza medica.

RISOLUZIONE CASO PRATICO

Alla luce delle premesse normative e delle considerazioni esposte in precedenza ai fini della configurabilità di un’ipotesi di mobbing, non è condizione sufficiente l’accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, essendo, a tal fine, necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione.

Delineato nei termini che si sono da ultimo visti, il quadro delle vessazioni sul posto di lavoro – correttamente interpretato alla luce dell’articolo 2087, cod. civ., architrave del sistema di tutela della salute del prestatore di lavoro -,  sembra assumere tratti di completezza e precisione a livello definitorio tali da garantire un sufficiente grado di certezza all’interprete giuridico che esamini una vicenda di mobbing.

In questo quadro, le diverse fattispecie cui la giurisprudenza fa riferimento (in particolare mobbing e straining) sono utili per definire le varie tipologie di vessazioni, ma non escludono la rilevanza di altre ipotesi che non rientrino espressamente nella loro definizione.

In particolare, il problema del mobbing va affrontato da un punto di vista il più possibile oggettivo, nei termini di cui si è detto, al fine di non gravare il lavoratore di una probatio diabolica (salva, comunque, la possibilità di ricorrere alla prova presuntiva ex aricolo 2029, cod. civ.) al netto di un elemento (quello psicologico) che non è comunque conditio sine qua non perché si verifichi il vulnus alla salute del lavoratore, ben potendo presentarsi ipotesi di comportamenti dannosi anche in assenza dello specifico elemento doloso.

Il problema va, quindi, affrontato, sotto il profilo dell’idoneità offensiva deli atti e dei comportamenti di cui il lavoratore si assuma vittima, che si dovrà escludere quando i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente e inevitabilmente usurante dell’ordinaria prestazione lavorativa o il problema si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili.

In questo quadro, starà poi al giudice decidere cosa rientri effettivamente nella fattispecie illecita ex articolo 2087, cod. civ., e cosa, invece, rientri nel normale “mal d’ufficio”, connaturato alla normale gravosità della prestazione lavorativa, di per sé foriera di fatica e stress. Ancora, al giudice spetterà poi quantificare i danni eventualmente subiti dal lavoratore, con un giudizio secondo equità che tenga conto di parametri, anche qui, il più possibile oggettivi.