Smart working: chi lavora da casa fa meno carriera

Il quotidiano finanziario di New York ha citato un’indagine condotta da Live Data Technologies su 2 milioni di dipendenti. Secondo questa società specializzata nell’analisi dei dati nel settore lavorativo, nell’ultimo anno i dipendenti in modalità di lavoro a distanza hanno sperimentato un tasso di promozione inferiore del 31% rispetto a coloro che hanno lavorato in ufficio a tempo pieno o in modalità ibrida. Tra le osservazioni rilevate, si evidenzia anche una distanza maggiore in termini di mentorship e un divario che penalizza in particolare le donne. In dettaglio, coloro che hanno svolto un lavoro a tempo pieno in ufficio o secondo il modello “ibrido”, alternando tra casa e presenza in ufficio, hanno ottenuto una promozione nel 5,9% dei casi. D’altra parte, coloro che hanno lavorato in modalità completamente remota hanno ottenuto un miglioramento nella loro posizione solo nel 3,9% dei casi su cento.

Nick Bloom, un economista di Stanford, identifica questa tendenza come un “pregiudizio di prossimità” e va oltre, affermando categoricamente: “Io la chiamo letteralmente discriminazione”. Questo fenomeno non coinvolge un numero esiguo di individui; al contrario, secondo il Census Bureau e il Bureau of Labor Statistics, si stima che a dicembre il 20% dei lavoratori americani con almeno una laurea si affidi completamente al lavoro remoto.

Dagli elogi allo smart working alla cruda realtà. Recentemente, il Wall Street Journal ha fornito dati che gettano ombre significative sul lavoro remoto, sottolineando una disparità evidente nel percorso di avanzamento professionale rispetto ai colleghi che operano in sede. Questi dati suscitano il sospetto che, per un preciso piano o per una propensione “naturale” da parte dei dirigenti, lavorare distanti dal fulcro dell’organizzazione aziendale possa tradursi in un’ombra professionale.

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