Licenziamento disciplinare per utilizzo del telepass aziendale per ragioni extralavorative

Articolo letto 200 volte, scritto il 30/04/2021 da Studio Cafasso

Ettore, responsabile amministrativo della società Alfa sud s.r.l. ,nell’ultimo anno ha riscontrato che l’agente di commercio  e capo zona Alfio ha utilizzato più volte il telepass aziendale per fini extralavorativi documentando ciò con apposite ricevute e riscontrando che in più occasioni il percorso di Alfio non risultava in linea con i consueti percorsi lavorativi che il dipendente avrebbe dovuto percorrere in ragione del suo lavoro. Alla luce di ciò Ettore, chiede un parere al suo consulente di riferimento in merito alla suddetta situazione, valutando altresì la possibilità di un licenziamento disciplinare per il dipendente.

CONTESTO NORMATIVO

Come noto, spesso, le aziende mettono a disposizione dei propri dipendenti una strumentazione operativa composta da beni fisici e immateriali (smartphone, software, autovetture, laptop e know-how specifici) di cui il dipendente ha l’obbligo di fare un utilizzo oculato e diligente.

 In diversi casi però è stato rilevato un uso improprio dei beni aziendali con comportamenti inappropriati da parte del lavoratore che vanno dall’installazione di profili social privati sui device aziendali all’impiego a fini privati di autovetture destinate all’operatività.

 Proprio quest’ultimo è senza dubbio tra i casi più diffusi di illecito, perché anche se il veicolo viene fornito con il dichiarato scopo di facilitare gli spostamenti durante le ore lavorative, capita molto spesso che il dipendente usufruisca della stessa auto per uso privato. Altri esempi di utilizzo improprio dei beni aziendali possono riguardare il telepass, la carta di credito e tutti i servizi e le agevolazioni messi a disposizione del lavoratore al fine di agevolarne l’operatività.

 Una società infatti può concedere in uso al dipendente il telepass aziendale per ragioni lavorative soprattutto nei casi in cui il lavoratore  deve spostarsi continuamente in auto per esigenze di servizio: a tal proposito però occorre distinguere i casi in cui l’azienda concede l’utilizzo esclusivo del telepass aziendale per l’esercizio dell’attività di impresa dai casi in cui è la stessa azienda a concedere l’uso promiscuo del telepass aziendale.

Analizziamo dunque i due aspetti anche e soprattutto ai fini fiscali.

Nel momento in cui la società decida di concedere al dipendente il telepass aziendale da utilizzarsi esclusivamente per l’esercizio dell’attività di impresa, dal punto di vista dell’Iva la stessa è interamente detraibile. Infatti, l’art. 19-bis1 del D.P.R. n.633/1972, al comma 1, lett. d) stabilisce espressamente con riferimento ai “transiti stradali” la detraibilità “nella stessa misura in cui è ammessa in detrazione l’imposta relativa all’acquisto o all’importazione di  veicoli stradali a motore.” Lo stesso articolo prevede che per i veicoli a motore l’Iva pagata sull’acquisto è detraibile al 100% qualora sussista la condizione di esclusività relativamente al loro utilizzo nell’esercizio dell’impresa.

A riguardo, la società dovrà essere in grado di documentare bene l’utilizzo esclusivo da parte del dipendente del telepass nell’esercizio dell’attività di impresa: raffrontando, qualora sia necessario, le note spese del dipendente in cui sono riepilogate le trasferte con il documento riepilogativo del telepass in cui sono evidenziati tutti i tragitti autostradali percorsi nel dato periodo.

L’esclusività nell’utilizzo del telepass potrà essere garantita solamente attraverso una perfetta coincidenza tra le date e i tragitti delle trasferte effettuate dal dipendente (e indicate nella nota spesa) con i percorsi autostradali riepilogati nell’estratto conto inviato dalla società che Vi concede il telepass.

Quanto, invece, alle imposte sui redditi, il costo sarà interamente deducibile, qualora siano sempre rispettate le condizioni di esclusività viste sopra.

In capo al dipendente, essendo il telepass adibito ad utilizzo esclusivamente aziendale, non andrà a costituire fringe benefit.

Se, diversamente, la società decide di permettere al dipendente di utilizzare il telepass anche per fini personali, lo stesso art. 19-bis1, comma 1, lett. c) e d), riduce la percentuale forfettaria di detrazione dell’Iva pagata sui transiti stradali al 40%. Vi è da precisare, tuttavia, che la risoluzione ministeriale n.6/2008 ha chiarito che nell’ipotesi di utilizzo promiscuo la detraibilità del 100% è consentita solamente qualora venga specificamente convenuto un corrispettivo per la possibilità accordata al dipendente di utilizzare il telepass anche per scopi privati. Tale corrispettivo, a cui deve essere applicata l’Iva in via di rivalsa potrà essere pagato direttamente dal dipendente o trattenuto dalla sua busta paga.

Per ciò che riguarda, invece, le imposte sui redditi, l’art. 164, comma 1, lett. b-bis) del TUIR stabilisce con espresso riferimento alle “spese e gli altri componenti negativi relativi ai mezzi di trasporto a motore utilizzati nell’esercizio di imprese ” che le stesse sono deducibili “nella misura del 90 per cento” se concesse “per la maggior parte del periodo di imposta.

Infine, la concessione del telepass in uso promiscuo al dipendente costituisce in capo a quest’ultimo un classico esempio di fringe benefit: siamo di fronte, infatti, ad una forma di remunerazione in natura, complementare alla retribuzione principale, riconosciuta dalla società al lavoratore dipendente.

Dal punto di vista fiscale, l’art. 51, comma 3, del TUIR dispone, per il dipendente, che “non concorre a formare il reddito il valore dei beni ceduti e dei servizi prestati se complessivamente di importo non superiore ad Euro 258,23; se il predetto valore è superiore al citato limite, lo stesso concorre interamente a formare il reddito.

In altre parole, se il dipendente, durante il periodo di imposta, utilizza il telepass per scopi privati per un importo complessivo inferiore ad Euro 258,23 e in assenza di altri beni o servizi a lui ceduti gratuitamente, lo stesso non andrà a costituire reddito di lavoro dipendente; viceversa, se supera detto ammontare, anche in conseguenza di altri beni o servizi ceduti gratuitamente, l’intero importo andrà a configurarsi come reddito imponibile ai fini IRPEF.

IMPLICAZIONI

Nella vicenda oggetto di approfondimento, Ettore responsabile amministrativo della società Alfa Sud s.r.l ha il sospetto che l’agente di commercio Alfio abbia un comportamento improprio in tema di uso di beni aziendali, compromettendo così il patrimonio o il buon nome dell’impresa. In tali ipotesi è necessario che il datore di lavoro intervenga in maniera diretta ed efficace, dalla segnalazione del comportamento improprio fino al licenziamento qualora si tratti di giusta causa.

 Il primo strumento con cui l’imprenditore ha il diritto/dovere di difendersi dall’utilizzo improprio di beni aziendali è quello di stabilire un codice etico a cui il lavoratore deve attenersi. Nel caso in cui non siano state dettate specifiche regole, infatti, è quasi impossibile che il datore di lavoro possa farsi valere in tribunale. Ne è un esempio la sentenza 3479 del 2015 emessa dalla Corte di Cassazione e secondo cui viene dichiarato illegittimo il licenziamento del dipendente che utilizzi autovettura, carta di credito e telepass dell’azienda se l’imprenditore non ha imposto precisi oneri di rendicontazione sul loro uso.

 Nel caso in cui sussistano, invece, le condizioni per procedere con la persecuzione del reato, e qualora vi sia il sospetto dell’avvenuto utilizzo improprio, l’imprenditore deve come prima cosa avviare delle indagini aziendali al fine di raccogliere le prove utili a procedere con il licenziamento per giusta causa.

La sanzione espulsiva infatti può essere adottata sulla base di una serie di inadempimenti del lavoratore alle attività proprie del suo ruolo (ossia quello di capo zona della società in questione), quali l’omesso controllo, di competenza dello stesso, dei punti vendita della società e l’utilizzo del telepass aziendale per ragioni non correlate allo svolgimento della prestazione lavorativa. 

I giudici di legittimità in più occasioni hanno fatto riferimento alla questione relativa alla nozione di giusta causa ai sensi dell’articolo 2119, cod. civ., e a quella, strettamente correlata, della proporzionalità tra condotta del lavoratore oggetto di contestazione e sanzione disciplinare espulsiva successivamente adottata.

Nel caso specifico, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 10540/2020, ha affermato che l’utilizzo del telepass aziendale per ragioni extralavorative può essere valutato come una condotta di gravità tale da rendere legittimo e proporzionato il licenziamento del dipendente, anche in considerazione delle caratteristiche del caso specifico.

In relazione a tale profilo è stato, infatti, sostenuto che, operando una valutazione in concreto del comportamento del lavoratore, anche in ragione del suo ruolo e della funzione svolta, il predetto contegno è idoneo a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario che deve sussistere tra datore di lavoro e prestatore.

Il dipendente nella vicenda in esame proponeva la propria impugnazione presso la Corte di Cassazione e invocava:

− la mancata considerazione delle circostanze giustificative addotte dal ricorrente stesso e relative al fatto che la condotta contestata fosse, invece, da qualificare come mera svista, dovuta al possibile utilizzo del casello di uscita corrispondente al proprio domicilio e alla propria residenza. Ugualmente, veniva sottolineata la mancata valutazione, da parte della Corte d’Appello, rispetto al fatto che tale prassi si fosse protratta per ben 10 anni e fosse stata sempre tollerata per fatti concludenti dall’azienda, che in busta paga operava poi il corretto distinguo rispetto all’imputazione dei costi, trattenendo le somme corrispondenti ai pedaggi non dovuti;

− l’omessa valutazione di un fatto decisivo per il giudizio e, dunque, la non conformità a diritto del provvedimento, con specifico riguardo all’irrilevanza disciplinare della mancanza contestata a motivo, appunto, della prassi in uso presso la società e alla supposta non modificabilità della sentenza di prime cure, per la piena sussistenza del fatto contestato;

− infine, l’erroneità della pronuncia e la non conformità a diritto della stessa, dal momento che non poteva essere invocata legittimamente, sulla base del codice disciplinare di cui al contratto collettivo applicabile nel caso de quo, la ricorrenza di una giusta causa di recesso dal rapporto di lavoro.

La Corte di Cassazione nel caso prospettato rigettava il ricorso proposto dal lavoratore chiarendo che una  valutazione della sussistenza o meno di un comportamento così grave da essere idoneo a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario debba essere effettuata in concreto, sulla base degli elementi che la vicenda in fatto, caso per caso, presenta.

RISOLUZIONE SECONDO NORMA

Come abbiamo avuto modo di delineare nel corso dell’approfondimento, la qualificazione della nozione di giusta causa ai sensi dell’articolo 2119, cod. civ., è di fondamentale importanza anche con riguardo a come tale nozione debba essere interpretata e declinata nel caso di contenzioso.
La Suprema Corte ha, infatti, rammentato come la valutazione della sussistenza o meno di un comportamento così grave da essere idoneo a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario debba essere effettuata in concreto, sulla base degli elementi che la vicenda in fatto, caso per caso, presenta.
Le considerazioni operate dalla Corte di Cassazione trovano, infatti, il loro nucleo fondante, da una parte, nel dato normativo costituito dall’articolo 2119, cod. civ., e, dall’altra, nell’esigenza di contemperare, applicando il dettato legislativo appena richiamato, le specifiche caratteristiche del caso concreto alla decisione, anche in relazione al ruolo del lavoratore. Come noto, l’articolo 2119, cod. civ., testualmente dispone, al primo comma, che:
“Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria del rapporto”.
Le caratteristiche identificative di tale nozione sono costituite, come ampiamente recepito da dottrina e giurisprudenza, dalla gravità del comportamento che la determina e dalla conseguente immediatezza della risoluzione del rapporto.
In tali casi, infatti, nessun’altra sanzione prevista dalla Legge e dalla contrattazione collettiva di riferimento può essere considerata sufficiente a dare piena tutela all’interesse del datore di lavoro.
Ai fini del giudizio di liceità della condotta del dipendente in relazione all’aspetto di cui si discute, il datore di lavoro deve considerare, sia sotto il profilo oggettivo che sotto quello soggettivo, se la condotta oggetto di contestazione ha in concreto leso il vincolo fiduciario che è base fondante del rapporto di lavoro. Dovrà, inoltre, essere ponderato attentamente anche il profilo della proporzionalità della sanzione rispetto al fatto commesso.
Anche in precedenza, la giurisprudenza della Suprema Corte ha chiarito, in diversi arresti, come il requisito della proporzionalità debba essere ponderato con specifico riferimento al caso concreto, tenendo presente una serie di elementi quali, a mero titolo esemplificativo, l’intensità dell’elemento intenzionale del prestatore di lavoro, il grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente, il danno arrecato al datore di lavoro, la natura e la tipologia del rapporto.
La Suprema Corte, con la sentenza 10540/2020 proseguendo nel solco già significativamente tracciato anche in precedenza, ha, dunque, ancora una volta, ribadito un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, ricordando come il disposto dell’articolo 2119, cod. civ., dal ricorrente invocato a parametro della censura proposta, imponga “la verifica, in relazione alla mancanza addebitata, dell’idoneità lesiva del vincolo fiduciario posto a base del rapporto che alla stessa si riconnette in particolare per quel che riguarda il rilievo attribuito al ruolo rivestito dall’interessato  così da risultare il comportamento addebitato ostativo alla prosecuzione anche provvisoria del rapporto”.

RISOLUZIONE CASO PRATICO

Alla luce delle premesse normative e delle considerazioni esposte in precedenza dunque, Alfio, che in più occasioni ha utilizzato il telepass aziendale per esigenze personali può essere licenziato per giusta causa.

Dai dati in possesso di Ettore, infatti, è emerso che  in più occasioni il percorso di Alfio non risultava in linea con i consueti percorsi lavorativi che il dipendente avrebbe dovuto percorrere in ragione del suo lavoro e quindi, avvia una contestazione disciplinare nei confronti dello stesso adducendo prove documentali che giustificano percorsi diversi rispetto alla tabella chilometrica che l’agente di commercio avrebbe dovuto percorrere in ragione del suo servizio.

La problematica principale in tale fattispecie attiene al rapporto fiduciario tra azienda e lavoratore che deve essere improntato in particolare, all’obbligo del lavoratore di essere fedele all’azienda ed al divieto di trattare affari in concorrenza con il proprio datore di lavoro ovvero divulgare notizie sull’attività produttiva. Dall’iniziale previsione da parte del codice civile (art. 2105) la definizione di “obbligo di fedeltà” è stata arricchita dalla giurisprudenza.

Nel tempo infatti la giurisprudenza ha ampliato il concetto di “riservatezza” ora da intendersi come l’obbligo di tenere un comportamento leale tale da proteggere l’azienda dall’uso pregiudizievole delle notizie cui il dipendente viene a conoscenza nello svolgimento della sua attività.

Sempre per la giurisprudenza il “divieto di concorrenza” impone al dipendente di non compiere azioni che: sebbene non producano un danno immediato siano potenzialmente in grado di provocarlo; creino situazioni di conflitto con gli interessi aziendali; siano comunque in grado di rompere il vincolo fiduciario azienda – dipendente.

In tale fattispecie Alfio ha posto in essere comportamenti idonei a ledere il vincolo fiduciario azienda- dipendente e pertanto può essere licenziato per giusta causa.