Il patto di prova nel contratto di apprendistato

Tullia, viene assunta dall’azienda Omicron con contratto di apprendistato cui viene apposta una clausola di prova della durata di un mese, in coerenza con le previsioni del contratto collettivo applicato.
Prima della scadenza del mese di prova, il tutor assegnato alla nuova apprendista riferisce alla referente società, atteggiamenti di Tullia improntati all’insubordinazione e alla negligenza della stessa nel predisporsi ad imparare la mansione assegnatagli.
La società Omicron, chiede pertanto al suo legale rappresentante se sussistono gli estremi per recedere dal patto di prova stipulato.

CONTESTO NORMATIVO

 Il patto di prova caratteristiche e requisiti

Come noto, nella lettera di assunzione può essere inserito un patto di prova, sicuramente molto utile nella fase iniziale del rapporto di lavoro in  cui alla buona riuscita si subordina il perfezionamento della assunzione del lavoratore.
La ratio di tale elemento accidentale del contratto – che, in quanto tale, presenta le caratteristiche tipiche del termine e della condizione – è quello di far valutare ad entrambe le parti la convenienza del proseguire il rapporto di lavoro: durante il periodo di prova, il datore ha la possibilità di valutare le capacità del lavoratore, mentre quest’ultimo può valutare l’ambiente dell’azienda e scegliere se proseguirvi la propria carriera o meno.
Questo patto può, infatti, servire alla reciproca conoscenza delle parti, con la possibilità di libero recesso sia per il datore di lavoro sia per il lavoratore. Con libero recesso si intende una chiusura di rapporto di lavoro priva dei consueti vincoli, come, ad esempio, la necessità di garantire un preavviso o di autenticare telematicamente le dimissioni. Il patto di prova è a tutti gli effetti una clausola del contratto, accessoria a quest’ultimo, e quindi, come tale, non obbligatoria.
All’interno del Codice civile, il riferimento a detto istituto è riscontrabile nell’articolo 2069, rubricato “assunzione in prova”, il quale prevede che “l’assunzione del prestatore di lavoro per un periodo di prova deve risultare da atto scritto. L’imprenditore e il prestatore di lavoro sono rispettivamente tenuti a consentire e a fare l’esperimento che forma oggetto del patto di prova”. Nel definire le caratteristiche dell’assunzione in prova, l’art. 2096 c.c. continua specificando la natura tendenzialmente libera di detto istituto, che lascia ad entrambe le parti la possibilità di recedere dall’accordo in tal senso concluso, senza che ciò comporti nessun tipo di obbligo
Per quanto riguarda la durata, essa, in coerenza con la natura dell’istituto, non è definita in misura specifica: sarà il Ccnl di riferimento per ciascuna categoria di lavoratori ad istituirne una massima (che generalmente si aggira intorno ai sei mesi), accertandosi della sua adeguatezza, affinché il lavoratore riesca a portare a termine le mansioni affidategli nel patto di prova. Sebbene essa possa essere diminuita su accordo delle parti, un suo aumento sarebbe da escludersi, se non nel caso in cui l’attività posta in essere dal dipendente sia particolarmente complessa, e dunque richieda più tempo perché egli riesca a dimostrare di essere in grado di adempiervi con successo. Nel caso in cui invece datore e lavoratore si accordino per una durata minima del periodo di prova, l’art. 2096 c.c. dispone che “la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del [suo] termine.”
Il patto, inoltre, ai fini della sua validità, deve essere apposto in forma scritta (quindi ab substantiam) ed è necessario  che ai fini della validità dello stesso, che la prova sia riferita a una predeterminata attività lavorativa. L’abilità del lavoratore, quindi, o la sua attitudine, devono essere misurate con riferimento a una mansione/compito concreta, ben individuata.
Raggiunto il termine previsto, se nessuno esprime volontà di recedere, la prova si ritiene automaticamente superata, ed il contratto prosegue in via definitiva, senza che sia necessario provvedere ad alcuna formalità in tal senso. Se, invece, le parti scelgono la via del recesso/licenziamento, per nessuna delle due sono previsti oneri di alcun tipo: il datore non dovrà fornire né preavviso, né giusta causa (integrando, così, un caso di licenziamento ad nutum); mentre il lavoratore non dovrà neppure presentare le proprie dimissioni online (come da normativa): basterà una apposita lettera al datore, per renderlo edotto su tale decisione.
Il periodo di prova dunque garantisce una certa flessibilità sia al datore di lavoro che al dipendente in materia di recesso, permettendo a entrambe le parti di porre fine al contratto senza preavviso e senza motivazione, alleggerendo dunque gli obblighi burocratici invece previsti per il normale recesso dal contratto di lavoro: la clausola apposta dunque al contatto di lavoro siglato tra le parti è senza dubbio valida.
Quanto alla tipologia di contratto a cui può essere apposto, il patto di prova può essere applicato ad ogni tipologia di contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. La giurisprudenza maggioritaria lo ritiene altresì applicabile anche al contratto a termine, poichè la durata certa di un contratto di lavoro fin dall’inizio della sua stipulazione non inficia in alcun modo la ratio sottesa alla sua applicazione. Allo stesso modo, deve ritenersi pienamente compatibile ai contratti con carattere formativo, purchè ovviamente non abbia ad oggetto le capacità tecnico professionali dell’apprendista o del giovane, che devono formarsi proprio attraverso lo svolgimento del rapporto contrattuale con carattere formativo, bensì l’astratta idoneità ad apprendere gli insegnamenti previsti ai fini del conseguimento di una certa qualifica professionale.

IMPLICAZIONI

Nella vicenda oggetto di approfondimento, Tullia viene assunta dall’azienda Omicron con contatto di apprendistato cui viene apposta una clausola di prova della durata di un mese, in coerenza con le previsioni del contratto collettivo applicato.
Prima della scadenza del mese di prova, il tutor assegnato alla nuova apprendista riferisce alla referente società, atteggiamenti di Tullia improntati all’insubordinazione e alla negligenza della stessa nel predisporsi ad imparare la mansione assegnatagli.
La giurisprudenza ha da tempo chiarito che la clausola di prova può essere ammessa anche ai contratti di lavoro che abbiano, come quelli di apprendistato, finalità formative e lo stesso legislatore ha di recente confermato tale possibilità per il contratto di apprendistato ( art. 41comma 1 d.lgs 81/2015): in tali casi il patto di prova mantiene la sua funzione economica-sociale che è quella di saggiare la reciproca convenienza all’instaurazione di un rapporto definitivo:il patto di prova infatti, permette al datore di lavoro di conoscere la personalità del dipendente in relazione all’adempimento della prestazione, che nel caso del contratto a finalità formativa sarà declinata verso l’accertamento dell’attitudine e della volontà all’apprendimento dell’apprendista.
Nell’ambito del patto di prova entrambe le parti devono consentire all’altra il corretto espletamento del periodo di prova. Il datore di lavoro ha pertanto l’obbligo di consentire al lavoratore lo svolgimento del rapporto di lavoro durante la prova ed analogo dovere incombe sul lavoratore. Da ciò consegue che la facoltà di recesso può essere esercitata esclusivamente se viene rispettato l’obbligo di fare e consentire lo svolgimento del periodo di prova. Durante il periodo di prova, il datore di lavoro ed il lavoratore possono recedere dal contratto in ogni momento, senza obbligo di preavviso, senza giusta causa o giustificato motivo, a meno che non abbiano pattuito una durata minima del periodo di prova. Il datore di lavoro dunque ha una libera facoltà di recesso, rimessa ad una sua valutazione discrezionale ma non arbitraria. Lo scioglimento del vincolo contrattuale per volontà del datore di lavoro al termine del periodo di prova infatti non è insindacabile. A tal proposito, la giurisprudenza ritiene che il lavoratore possa contestare la legittimità del licenziamento se non gli è stato consentito, per inadeguatezza della durata della prova o per altri motivi, di dar prova del suo comportamento e delle sua qualità professionali alle quali era preordinato il patto di prova.
Se, però, le parti hanno stabilito una durata minima garantita del periodo di prova al fine di consentire l’effettività dell’esperimento (con la previsione, ad esempio, di un obbligo risarcitorio in capo al lavoratore che si dimetta anticipatamente: Cass., 19 agosto 2009, n. 18376), il recesso può avvenire solo dopo la scadenza del termine concordato. Il recesso può essere intimato al lavoratore in prova anche oralmente, dal momento che l’obbligo di comunicazione scritta del licenziamento (unitamente ai motivi che lo sorreggono) sorge in capo al datore di lavoro solo dopo che l’assunzione del lavoratore diviene definitiva e, in ogni caso, decorsi 6 mesi (durata massima del periodo di prova) dall’inizio della prestazione lavorativa oggetto della prova (Corte Cost., 4 dicembre 2000, n. 541).

RISOLUZIONE SECONDO NORMA

Come abbiamo avuto modo di delineare nel corso dell’approfondimento, Tullia nell’ambito del contratto di apprendistato stipulato con l’azienda, ha avuto atteggiamenti improntati alla negligenza e all’insubordinazione nel predisporsi ad imparare la nuova mansione e l’azienda intende recedere dal patto di prova stipulato.
Se è vero che il rapporto di lavoro subordinato costituito col patto di prova è caratterizzato dal potere di recesso del datore di lavoro, il quale – durante il periodo di prova – lo può esercitare senza obbligo di fornire al lavoratore alcuna motivazione, è altresì vero che detta discrezionalità non è assoluta e incontra dei limiti elaborati dalla giurisprudenza.

Il recesso è, infatti, ritenuto illegittimo qualora:

-la prova non sia stata effettivamente consentita: detta ipotesi ricorre, ad esempio, quando il lavoratore dimostra che non sia intercorso un lasso temporale sufficiente a consentire al datore di lavoro la valutazione delle capacità di svolgere la prestazione assegnata da parte del lavoratore (Trib. Milano, 4 giugno 2007; Cass., 6 giugno 1987, n. 479); quando quest’ultimo non sia stato posto nelle condizioni di sostenere la prova, per omessa concreta attribuzione delle mansioni (Cass., 8 febbraio 2000, n. 1387) o qualora la prova abbia avuto ad oggetto mansioni diverse da quelle previste all’atto dell’assunzione, siano esse inferiori o superiori (Cass., 12 dicembre 2005, n. 27310);

– la prova sia stata positivamente superata dal lavoratore: ciò si verifica, ad esempio, nel caso in cui il datore di lavoro abbia – prima del recesso – comunicato all’interessato il superamento della prova o ricorrano altri elementi attestanti il suddetto superamento; peraltro, occorre ricordare (come sopra detto) che la valutazione del datore di lavoro non ha ad oggetto esclusivamente e necessariamente la capacità professionale del lavoratore, ben potendo riguardare il comportamento complessivo dello stesso, desumibile dal rispetto – ad opera di quest’ultimo – dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione della prestazione lavorativa e dal modo in cui la sua personalità si manifesta (Cass., 21 luglio 2001, n. 9948; Trib. Milano, 7 marzo 2012, n. 1261);

– il licenziamento sia riconducibile ad un motivo illecito (quale, ad esempio, una ragione discriminatoria) o estraneo al rapporto di lavoro (si pensi, ad esempio, all’ipotesi dell’invalidità del lavoratore che determina il datore di lavoro a recedere dal rapporto).

– L’onere di dimostrare l’esistenza di una delle summenzionate situazioni, ai fini dell’annullamento del recesso per sua illegittimità, grava sul lavoratore (Corte Cost., 22 dicembre 1980, n. 189, cit.; Cass., 12 marzo 1999, n. 2228). Laddove il licenziamento del lavoratore in prova si fondi su un motivo non illecito ma estraneo all’esperimento lavorativo, il giudice deve operare una valutazione sulla sua giustificatezza, al fine di accertare l’idoneità o meno del recesso a porre termine alla prova e a risolvere il rapporto (Cass., 17 febbraio 2000, n. 1762; Cass., 17 ottobre 1998, n. 10305; Cass., 17 gennaio 1998, n. 402) .

Quanto, alle conseguenze dell’illegittimità del recesso, le soluzioni prospettate dalla giurisprudenza di merito e di legittimità sono diverse. Al riguardo, si è affermato che:

 l’illegittimità del recesso non comporta l’applicazione della normativa sui licenziamenti ma unicamente la prosecuzione del periodo di prova non ancora decorso (Cass., 21 giugno 1985, n. 2333, in Riv. it. dir. lav., 1985, II, 315,), con il solo diritto – in capo al lavoratore – di ottenere il pagamento della retribuzione per il periodo residuo (Cass., 18 novembre 1995, n. 11934);

 al prestatore di lavoro spetta il solo risarcimento dei danni per responsabilità contrattuale del datore, non essendo applicabile al lavoratore in prova il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro (Cass., 22 ottobre 1987, n. 7821);

 al lavoratore licenziato durante il periodo di prova spetta la tutela reale (o obbligatoria, a seconda dei requisiti occupazionali del datore di lavoro nonché delle cause del recesso) allorquando lo stesso dimostri che il recesso non è avvenuto per mancato superamento della prova bensì per altri motivi (illeciti o comunque estranei alla prova: App. Venezia, 3 febbraio 2011; Trib. Barcellona P.G., 20 novembre 2007).

Più di recente, riconsiderando le conseguenze derivanti non dal difetto genetico del patto di prova, bensì dal vizio funzionale, rappresentato, nel caso esaminato, dalla non coincidenza delle mansioni espletate in concreto rispetto a quelle indicate nel patto de quo, la Suprema Corte ha riaffermato la distinzione tra licenziamento per illegittima apposizione del patto di prova al contratto di lavoro e recesso intimato in regime di lavoro in prova pur in presenza di una legittima la clausola recante il patto: nel primo caso, c’è la “conversione” (in senso atecnico) del rapporto in prova in rapporto ordinario e trova applicazione, ricorrendo gli altri requisiti, il regime ordinario del licenziamento individuale; nel secondo caso, e solo in questo, c’è lo speciale regime del recesso in periodo di prova, frutto di elaborazione giurisprudenziale, che per più versi si discosta dalla disciplina ordinaria del licenziamento individuale. In particolare, si è affermato che, in applicazione dei principi civilistici di diritto comune, nel caso di accertamento giudiziale dell’illegittimità del recesso intimato dal datore di lavoro al lavoratore durante lo svolgimento del periodo di prova, la tutela del lavoratore si compendia nella mera prosecuzione – ove possibile – della prova per il periodo di tempo mancante al termine prefissato oppure nel risarcimento del danno (Cass., 3 dicembre 2018, n. 31159).

RISOLUZIONE CASO PRATICO

Alla luce delle premesse normative e delle considerazioni esposte in precedenza dunque, l’azienda Omicron può recedere dal patto di prova stipulato con Tullia. Da quanto è emerso infatti la stessa Tullia ha  avuto in più occasioni atteggiamenti  di negligenza e insubordinazione nel predisporsi ad imparare la mansione assegnatale. La ratio, infatti della   clausola di prova apposta al contratto di apprendistato consiste proprio di permettere alle parti di saggiare la reciproca convenienza all’instaurazione di un rapporto di lavoro definitivo: se è vero infatti che la clausola di prova non permette di appurare le qualità professionali del lavoratore, è pur vero che ha la funzione di conoscere il carattere e la personalità del lavoratore in relazione all’adempimento della prestazione che nel caso appunto di un contratto con finalità formativa sarà declinata verso l’accertamento della volontà e dell’attitudine dell’apprendista. Il lavoratore, infatti nell’ effettuare la sua prestazione lavorativa, dovrà utilizzare la diligenza che gli verrà richiesta dal datore di lavoro. Per diligenza si intende l’accuratezza ed impegno che egli dovrà mettere per realizzare la sua prestazione, fornendo al datore di lavoro un metro di giudizio oggettivo per il suo operato.
Inoltre, il lavoratore dovrà essere in grado di effettuare il suo lavoro mediante coordinazione con gli altri lavoratori, secondo le direttive del datore di lavoro, ed è per questo che una parte integrante dell’obbligo di diligenza è anche il dovere di collaborazione, il quale trova la sua base nell’effettuare la prestazione secondo buona fede, dato il lavoratore non solo adempie i doveri nascenti dal contratto di lavoro mettendo formalmente a disposizione dell’imprenditore le sue energie lavorative, ma è necessario ed indispensabile che il suo comportamento sia tale da rendere possibile al datore di lavoro di poter ottenere il massimo da ogni lavoratore. Tutto ciò si realizza anche mediante l’integrazione tra gli apporti dei singoli operatori nel contesto unitario della funzione o servizio cui la prestazione lavorativa inerisce.  Il lavoratore dovrà osservare puntualmente le direttive impartite dal datore di lavoro. Quest’ultimo infatti, ha il potere direttivo dell’azienda, e pertanto egli ha la facoltà di dettare le disposizioni necessarie per conformare la condotta del lavoratore alle regole prescritte al fine di garantire il regolare ed efficiente funzionamento dell’organizzazione del lavoro.
È  da rilevare che  nel caso specifico le condotte di Tullia non sono state inspirate a detti principi ed è pertanto che si ritiene applicabile il recesso da parte dell’azienda Omicron essendo trascorsi infatti circa venti giorni dall’inizio del periodo di prova di Tullia.