Licenziamento e social network: vorrei ma non posto

Camilla, dipendente di una società di noleggio auto,  assunta con contratto a tempo indeterminato, con mansione di addetta contabile, era solita collegarsi dal suo pc aziendale al suo profilo Facebook e Instagram, “attività” che svolgeva durante l’orario di lavoro e per periodi prolungati.

Da un controllo effettuato dal responsabile dell’azienda infatti, era emerso che la stessa nell’arco di un mese si era collegata più volte ai social, commentando e postando altresì post talvolta offensivi e denigratori della società stessa.

Carlo, responsabile dell’azienda suddetta, dopo aver rappresentato alla stessa più volte la non correttezza dei suoi comportamenti, chiede un parere al suo rappresentante legale  al fine di verificare se possano esserci  gli estremi per un licenziamento disciplinare.

CONTESTO NORMATIVO

Come noto, nel mondo moderno, la tecnologia e l’uso dei dispositivi tecnologici sono ormai diventati parte integrante della nostra vita di tutti i giorni. La gran parte delle persone hanno sia il personal computer che lo smartphone. Praticamente tutti hanno, almeno, un account su uno dei più popolari social network. Ma che influsso può avere l’uso dei social network nei rapporti di lavoro? Può esserci una correlazione tra licenziamento e instagram/Facebook?

Come vedremo, la risposta è affermativa.

Infatti, sono diversi i rischi che l’uso dei social network comportano con riferimento ai rapporti di lavoro.

Tramite i social network, infatti, il lavoratore può porre in essere dei comportamenti che possono essere valutati negativamente dai propri capi o superiori gerarchici e che possono, dunque, condurre a serie conseguenze sul lavoro, ivi compreso il licenziamento disciplinare.

Prima di entrare nel vivo dell’argomento ed analizzare che rapporto c’è tra social network e licenziamento, occorre fare alcune doverose premesse che riguardano i doveri del lavoratore.

Il lavoratore è, infatti, soggetto all’esercizio di tre poteri del datore di lavoro:

  • il potere direttivo, ossia, il potere del datore di lavoro di dare indicazioni, direttive e ordini al lavoratore relativi alle modalità di esecuzione della prestazione di lavoro;
  • il potere di controllo, ossia, il potere del datore di lavoro di controllare che il lavoratore, nello svolgimento del lavoro, si stia realmente attenendo alle direttive ricevute;
  • il potere disciplinare, ossia, il potere del datore di lavoro di “punire” chi non fa correttamente il proprio dovere tramite l’applicazione di sanzioni disciplinari.

In generale, il lavoratore deve svolgere la prestazione di lavoro con diligenza e deve ispirarsi, per tutto il rapporto di lavoro, ai principi della correttezza e della buona fede.

Durante l’orario di lavoro, il lavoratore deve svolgere l’attività per cui viene pagato e non può, dunque, svolgere attività personali che non hanno niente a che vedere con le proprie mansioni.

Ulteriori doveri del lavoratore sono stabiliti direttamente dalla legge, come, ad esempio:

  • obbligo di fedeltà: il lavoratore deve essere fedele al datore di lavoro, non deve pronunciare frasi offensive e gettare discredito sul datore di lavoro;
  • obbligo di non concorrenza: il lavoratore non deve agire in concorrenza con il datore di lavoro;
  • obbligo di segretezza: il lavoratore non deve divulgare informazioni riservate di cui sia venuto a conoscenza sul lavoro.

La violazione degli obblighi a lavoro da parte del dipendente fa incorrere in diversi rischi, da quelli di provvedimenti disciplinari a sanzioni. Anche se la violazione dell’obbligo a lavoro non ha creato alcun danno ad attività, datore di lavoro e colleghi, il lavoratore viene comunque punito per il solo fatto di essere stato negligente nei confronti degli obblighi lavorativi previsti.

Una volta violato l’obbligo di lavoro, o commesso l’errore, solitamente il dipendente negligente ha cinque giorni di tempo per presentare le giustificazioni, verbali o scritte, e solo dopo questo passaggio il datore di lavoro può decidere per un provvedimento disciplinare o ‘perdonare’ il lavoratore. Come previsto dalla legge, il provvedimento disciplinare deve essere proporzionato alla gravità della violazione riscontrata e da scegliere tra quelle previste dal Ccnl di riferimento di categoria.

Negli ultimi anni si è registrato un aumento esponenziale delle controversie di lavoro causate dell’abuso o dell’uso improprio della rete. La casistica è ampia e variegata: si parte dalle offese rivolte più o meno direttamente alla parte datoriale (o all’amministratore della società), passando dall’espressioni diffamatorie indirizzate alla propria azienda, sino all’uso eccessivo dei social network durante l’orario di lavoro.

La norma violata nei casi sopraelencati è quella prevista dall’articolo 2119 c.c., il quale stabilisce espressamente che: “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto.

A tal proposito, è bene ricordare che un licenziamento può essere considerato legittimo quando il comportamento adottato dal lavoratore sia connotato da una gravità talmente elevata da compromettere irreversibilmente la fiducia del proprio datore e, dunque, impedire in maniera definitiva – e non soltanto in via provvisoria – la prosecuzione del rapporto di lavoro.

L’uso dei social network espone il lavoratore a delle possibili conseguenze disciplinari sotto due distinti profili:

  • se il lavoratore usa i social network durante l’orario di lavoro il datore di lavoro può sanzionarlo per aver svolto, durante il lavoro, attività personali estranee al lavoro da svolgere. Peraltro, se il lavoratore ha usato i social network per il tramite degli strumenti informatici messi a disposizione dal datore di lavoro può insorgere un ulteriore profilo disciplinare soprattutto laddove vi fosse, in azienda, una policy aziendale sull’uso degli strumenti informatici che vieta espressamente ai lavoratori di accedere a questi siti con gli strumenti di lavoro;
  • al di là dell’uso dei social network durante l’orario di lavoro, anche se usati al di fuori del lavoro, i social network possono condurre a conseguenze disciplinari se il lavoratore usa questi strumenti in modo improprio, ad esempio, esprimendo frasi offensive verso il datore di lavoro.

Occorre, infatti, ricordare che anche la condotta extralavorativa del lavoratore può avere conseguenze disciplinari.

La Cassazione ha infatti chiarito che, in tema di licenziamento per giusta causa, la condotta extralavorativa rende legittima la misura espulsiva. Tuttavia, affinché il licenziamento determinato dalla condotta extralavorativa sia legittimo, occorre che la condotta posta in essere dal lavoratore si rifletta sulla funzionalità del rapporto stesso e abbia compromesso le aspettative sul futuro puntuale adempimento della prestazione. Ne consegue che il comportamento tenuto dal lavoratore su Facebook, Instagram o Twitter può portare al suo licenziamento.

Di recente, la Cassazione ha reputato legittimo il licenziamento intimato ad un lavoratore che aveva diffuso sui social network un messaggio diffamatorio nei confronti dell’azienda datore di lavoro.

Secondo la Cassazione la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso i social costituisce un’ipotesi di diffamazione, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, posto che il rapporto interpersonale, proprio per il mezzo utilizzato, assume un profilo allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione.

Secondo i giudici, questo comporta che la condotta di postare un commento sui social network realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica, con la conseguenza che, se, come nella specie, lo stesso è offensivo nei riguardi di persone facilmente individuabili, la relativa condotta integra gli estremi della diffamazione e come tale, correttamente il contegno è stato valutato in termini di giusta causa del recesso, in quanto idoneo a recidere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo.

Inoltre, come abbiamo detto, se l’azienda si rende conto che, durante l’orario di lavoro, il lavoratore sta sempre connesso su Instagram potrebbe licenziarlo per giusta causa. Infatti, durante l’orario di lavoro, il lavoratore viene pagato per svolgere la prestazione di lavoro e non per navigare sui social. Ne consegue che divagare nei social anziché lavorare costituisce una grave violazione degli obblighi che derivano dal rapporto di lavoro, con conseguente possibilità di essere licenziati per giusta causa.

E’ quanto è avvenuto, di recente, con riferimento ad una segretaria del bresciano che, in 18 mesi, si era collegata dal computer del suo ufficio 4.500 volte a Facebook. Il datore di lavoro aveva contato il numero di accessi al social network attraverso la cronologia del computer. Più in generale, gli accesi alla rete internet erano stati 6.000, per durate talora significative.

La Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento intimato alla segretaria dal suo datore di lavoro ed ha anche respinto la doglianza della lavoratrice, secondo la quale non vi erano prove rispetto al fatto che fosse stata proprio lei a collegarsi a Facebook.

Secondo i giudici della Cassazione è corretto quanto argomentato sul punto dal giudice di merito, secondo il quale gli accessi alla pagina Facebook personale richiedono una password, sicché non dovevano nutrirsi dubbi sulla riferibilità di essi alla ricorrente.

Inoltre, in alcuni casi, le aziende si dotano di specifiche policy relative all’uso del computer da parte dei dipendenti e se questi regolamenti fanno divieto di usare i social network con gli strumenti di lavoro il datore di lavoro avrà un argomento in più per licenziare il dipendente che usa Instagram al lavoro.

IMPLICAZIONI

Nella vicenda oggetto di approfondimento, la dipendente era solita collegarsi dal suo pc aziendale al suo profilo Facebook e Instagram, “attività” che svolgeva durante l’orario di lavoro e per periodi prolungati. Il sempre più diffuso utilizzo dei social network da parte delle persone, e dunque anche dei lavoratori, pone sempre maggiori problemi con riferimento al rapporto di lavoro. Sono sempre più frequenti, infatti, i casi in cui alla base di un licenziamento disciplinare del lavoratore c’è l’uso dei social network.

Tuttavia, prima che il datore possa procedere alla comminazione della sanzione disciplinare è tenuto comunicare al dipendente, entro un breve termine e per iscritto, i fatti addebitati. In mancanza di tale contestazione scritta l’eventuale sanzione sarà considerata nulla (a meno che non si tratti di un mero rimprovero).

Ricevuta la lettera di contestazione dell’illecito disciplinare, il dipendente avrà a disposizione un brevissimo lasso di tempo (5 giorni) per approntare le proprie difese e chiedere, eventualmente, di essere ascoltato personalmente. In quest’ultimo caso, l’azienda sarà obbligata a procedere all’audizione.

Solo all’esito dell’eventuale ascolto, il datore di lavoro sarà libero di infliggere la sanzione disciplinare ritenuta più adatta.

Come noto dunque se il lavoratore agisce contro i suoi obblighi il datore di lavoro può avviare, nei suoi confronti, il procedimento disciplinare. La procedura prevede tre fasi:

  • contestazione disciplinare: il datore di lavoro contesta per iscritto al lavoratore il fatto commesso che, a suo avviso, costituisce una infrazione disciplinare;
  • diritto di difesa del lavoratore: il lavoratore, entro cinque giorni dalla data di ricevimento della contestazione disciplinare, o nel maggior termine previsto dal Ccnl applicato al rapporto di lavoro, invia al datore di lavoro le proprie giustificazioni scritte o chiede un’audizione orale;
  • applicazione della sanzione disciplinare: valutate le giustificazioni del dipendente, il datore di lavoro può decidere di accoglierle oppure di applicare al lavoratore una sanzione disciplinare.

Le sanzioni disciplinari applicabili sono quelle, e solo quelle, previste dalla legge, ossia:

  • rimprovero verbale;
  • rimprovero scritto;
  • multa, fino ad un massimo di 4 ore della normale retribuzione del lavoratore;
  • sospensione dal lavoro e dalla retribuzione fino ad un massimo di 10 giornate lavorative;
  • licenziamento con preavviso (detto anche per giustificato motivo soggettivo);
  • licenziamento per giusta causa (detto anche licenziamento in tronco).

Le ultime due sanzioni disciplinari indicate sono dette sanzioni espulsive perché determinano la fine del rapporto di lavoro.

Le altre sono dette sanzioni conservative perché penalizzano il dipendente conservando, tuttavia, il rapporto di lavoro.

RISOLUZIONE SECONDO NORMA

Come abbiamo avuto modo di delineare nel corso dell’approfondimento, in diverse occasioni, la Cassazione si è pronunciata sulla questione della legittimità dei licenziamenti irrogati a causa dell’uso scorretto di internet e dei social.

Nel 2012, con la sentenza n. 15654, i giudici di legittimità hanno espresso il principio secondo cui “ai fini della valutazione della legittimità di un licenziamento viene in considerazione ogni comportamento, quand’anche compiuto al di fuori della prestazione lavorativa, che per la sua gravità sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere la prosecuzione del rapporto pregiudizievole per gli scopi aziendali”.

Ed ancora, con la sentenza n. 10280 del 27 aprile 2018gli Ermellini hanno stabilito che “le critiche offensive del lavoratore postate sulla propria bacheca Facebook creano un grave danno all’immagine aziendale ed hanno natura diffamatoria tale da giustificarne il licenziamento”. Il caso posto all’attenzione della Suprema Corte traeva origine da un licenziamento intimato a una lavoratrice a causa di pesanti affermazioni dalla stessa pubblicate sul suo profilo personale Facebook, con le quali diffamava l’azienda e il suo datore di lavoro, senza tuttavia esplicitare il nome di quest’ultimo.

Secondo la Suprema Corte, la diffusione di un messaggio denigratorio tramite l’uso di un social network integra un’ipotesi di diffamazione, poiché le espressioni diffamatorie veicolate tramite tale canale sono in grado di raggiungere un numero indeterminato di persone.

Sennonché, occorre al riguardo evidenziare come l’orientamento della Cassazione non è del tutto unanime; ed invero, con la sentenza 31 maggio 2017, n. 13799,  la Suprema Corte ha disposto che “È illegittimo il licenziamento irrogato al dipendente che critica l’azienda sulla propria pagina Facebook”.

La vicenda posta al vaglio dei giudici di legittimità muoveva da un post che la parte datoriale considerava “oggettivamente diffamatorio, sia nei confronti della stessa società che nei confronti della legale rappresentante”, mentre la Corte, richiamando il disposto di cui all’art. 18, così come modificato dalla Legge Fornero, ha ritenuto che il post in questione rientrasse nell’ipotesi del fatto esistente ma non illecito.

È agevole comprendere, dunque, come spesso i problemi riguardino il tenore (offensivo o diffamatorio) dei messaggi pubblicati dai dipendenti sulla bacheca dei profili personali o nei gruppi creati all’interno degli stessi social; tuttavia, esistono altre ipotesi nelle quali ciò che assume rilevanza è il lasso di tempo che il dipendente trascorre sui social network durante l’orario di lavoro: a parere della Cassazione, anche questi particolari casi possono rappresentare una giusta causa di licenziamento.

A tal proposito, giova evidenziare una pronuncia resa dal 2015, con cui la Cassazione dichiarava legittimo un licenziamento. Il caso sottoposto all’attenzione della Corte scaturiva da un account falso creato dal datore di lavoro, poiché questi sospettava che uno dei suoi dipendenti trascurasse le proprie mansioni per trascorrere del tempo su Facebook.

Nello specifico, il dipendente abboccava l’amo lanciato dal suo capo e iniziava a inoltrare messaggi al nuovo contatto, anche durante l’orario di lavoro. A fronte di tale condotta, il datore intimava il licenziamento per giusta causa, il quale veniva puntualmente impugnato dal lavoratore, sull’assunto che i controlli occulti posti in essere dal datore di lavoro fossero illegittimi e lesivi della sua privacy.

La Corte di Cassazione ha, però, confermato la validità della sanzione disciplinare espulsiva, ritenendo legittimi i controlli occulti nel caso in cui gli stessi mirano a tutelare i beni del patrimonio aziendale. In particolare, secondo la Suprema Corte, questi interessi economici prevalgono sul diritto del lavoratore alla riservatezza e non costituiscono una violazione della sua dignità personale e lavorativa, ove effettuati in maniera non eccessivamente invasiva e nel rispetto delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti.

Concludiamo la nostra rassegna giurisprudenziale, con la recente sentenza n. 3133 dell’1/02/2019, con cui la Cassazione ha statuito che è legittimo il licenziamento disciplinare irrogato dal datore di lavoro che, a seguito dell’analisi della cronologia del pc di un proprio dipendente, scopra che questi, durante l’orario di lavoro, abbia effettuato circa 6000 accessi nell’arco di 18 mesi, di cui circa 4500 su Facebook, costituendo detto comportamento una violazione degli obblighi di diligenza e di buona fede nell’espletamento della prestazione da parte del lavoratore.

RISOLUZIONE CASO PRATICO

Alla luce delle premesse normative e delle considerazioni esposte in precedenza dunque, la dipendente può incorrere in un licenziamento disciplinare per essere solita collegarsi dal suo pc aziendale al suo profilo Facebook e Instagram, “attività” che svolgeva durante l’orario di lavoro e per periodi prolungati. Il vincolo fiduciario era stato nella specie violato in considerazione:  del gran numero di accessi operati dalla lavoratrice,  della loro estraneità ai compiti della lavoratrice, e  dell’utilizzo improprio del tempo lavorativo, sicché i fatti ascritti erano idonei ad integrare un giustificato motivo soggettivo di recesso dal rapporto di lavoro.Anche indipendentemente dal rapporto di collegamento social (tipo “amicizia” su Facebook), quando il “profilo privacy” scelto e adottato dal lavoratore consente la visualizzazione dei suoi “post”, commenti e foto da parte di tutti (cioè è aperto ad una cerchia di utenti indeterminabile), per il Garante della Privacy è legittimo l’uso a fini disciplinari, da parte del datore di lavoro, di ogni manifestazione “tracciata” sui social network da parte del proprio dipendente. Viceversa, ove il profilo di privacy del lavoratore limitasse l’accesso ai dati, e il datore di lavoro non avesse dunque legittimamente accesso ai contenuti in questione, si porrebbe l’esigenza di verificare entro quali limiti rimanga giustificato l’esercizio del potere disciplinare.