Patto di non concorrenza e rapporto di lavoro subordinato

Sempronio stipulava all’atto di assunzione con la società Epsilon s.p.a un patto  di non concorrenza che prevedeva un corrispettivo minimo annuo sulla base del quale si sarebbe dovuto calcolare quanto dovuto alla fine del rapporto, in proporzione alla durata del rapporto stesso.
Il dipendente, alla cessazione del rapporto di lavoro,  riteneva fosse nullo il patto di non concorrenza per  mancanza della determinazione o la determinabilità del
corrispettivo riconosciuto a favore del lavoratore a fronte delle limitazioni
professionali imposte dal datore di lavoro e per conseguente impossibilità, per
il lavoratore, di verificare la sua congruità in relazione
al sacrificio professionale richiesto. La società, dunque, chiedeva al suo professionista di riferimento di verificare la congruità o meno di tale patto alla luce del fatto che il corrispettivo concordato fosse indeterminato, anche se  determinabile sulla base di elementi oggettivi desunti dallo stesso rapporto di lavoro.

CONTESTO NORMATIVO

Come noto, nel rapporto di lavoro subordinato, le parti possono stipulare un patto di non concorrenza, con cui il lavoratore si impegna a non prestare attività lavorativa per aziende in concorrenza con il datore di lavoro per un determinato periodo dopo la cessazione del rapporto di lavoro. Ciò, di solito, al fine di proteggere il know-how aziendale, ma anche l’organizzazione amministrativa e tecnica dell’azienda.

La norma di riferimento, quando si tratta di rapporto di lavoro subordinato, è l’articolo 2125 cod. civ., il quale dispone che: “Il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo. La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura suindicata”.

Le parti possono sottoscrivere un patto di non concorrenza contestualmente alla sottoscrizione del contratto di lavoro, durante il rapporto (ad esempio, quale contropartita rispetto a miglioramenti di carriera o di affidamenti di nuove responsabilità al lavoratore) ovvero al termine del rapporto stesso.

Spesso, il patto di non concorrenza viene stipulato al momento dell’assunzione del dipendente; inserendo tale clausola all’atto dell’assunzione, il datore di lavoro potrà imporla come conditio sine qua non dell’instaurazione del rapporto di lavoro. Tuttavia, può trascorrere anche molto tempo dalla sottoscrizione del patto all’effettiva operatività dell’accordo, e in questo periodo la convenienza per l’azienda del patto di non concorrenza, ovvero l’opportunità di sostenerne gli oneri economici al momento della sua effettiva esecuzione potrebbe mutare; si pensi al caso del dipendente che per ragioni di età, familiari o di salute decidesse di ritirarsi dal lavoro o trasferisca la propria residenza al di fuori dell’ambito territoriale di operatività dell’impresa, o viceversa al caso del lavoratore che nel corso della carriera presenti uno sviluppo professionale particolarmente significativo, entrando in possesso delle competenze ‘sensibili’ per la concorrenzialità dell’azienda.

Per ovviare a tali inconvenienti, è abbastanza diffuso nella prassi l’inserimento nel patto di non concorrenza della clausola di opzione o di recesso a favore dell’azienda, in modo da permettere al datore di lavoro di valutare l’effettiva convenienza del patto. Sia l’opzione che il recesso consentono infatti all’imprenditore di differire nel tempo, ad un momento successivo alla stipulazione del patto – che solitamente viene individuato in un termine decorrente dalle dimissioni rassegnate dal lavoratore, o coincide con la cessazione del rapporto per licenziamento o scadenza del termine – la scelta di avvalersi o no del patto di non concorrenza.

La legittimità di tali pattuizioni è tuttavia dubbia – soprattutto qualora non vengano previsti specifici corrispettivi in favore del lavoratore – in quanto l’azienda finisce per condizionare le future scelte di carriera del dipendente, il quale, una volta sottoscritto il patto, pur non avendo ancora la certezza dell’effettiva volontà dell’azienda di avvalersene, viene normalmente indotto a rifiutare eventuali offerte di lavoro da imprese concorrenti, per il timore di esporsi a pesanti richieste risarcitorie, o di vedersi addirittura inibito alla prosecuzione del rapporto con l’impresa concorrente.

L’art. 2125 cod. civ., allo scopo di non comprimere eccessivamente l’attività del lavoratore e di salvaguardarne le opportunità di occupazione successivamente alla cessazione del rapporto, subordina la validità del patto di non concorrenza ad alcuni limiti di validità.

Qualora uno di tali limiti non fosse rispettato, e dunque il patto di non concorrenza venisse dichiarato nullo, il lavoratore non sarà vincolato al suo rispetto, con l’obbligo conseguente di dover restituire le somme ricevute in corso di rapporto a tale titolo, trattandosi di somme versate indebitamente. Qualora, peraltro, il lavoratore dimostri di aver rifiutato proposte di lavoro, sulla base di un patto di non concorrenza poi dichiarato nullo, potrà essere valutata la non ripetibilità di tali somme da parte del datore di lavoro, pur in presenza di una pronuncia di nullità, stante il legittimo affidamento del lavoratore.

Prima di tutto, è necessario che l’accordo di non concorrenza abbia forma scritta. Un patto di non concorrenza in forma verbale è quindi nullo. Il patto può essere contenuto nello stesso contratto di assunzione o previsto in una scrittura privata separata.

 In secondo luogo, il patto di non concorrenza deve sempre essere retribuito con un corrispettivo congruo per il lavoratore che lo sottoscrive. La somma dovuta al lavoratore può essere stabilita come quota fissa o come percentuale della retribuzione.

L’importo corrisposto al lavoratore deve essere determinato o almeno determinabile, non potendo dipendere la determinazione del corrispettivo dalla sola durata del rapporto (elemento sottratto alla disponibilità del lavoratore).

La misura e le modalità di corresponsione del corrispettivo sono rimessi all’autonomia delle parti contraenti. Tuttavia, il corrispettivo non può essere meramente simbolico o sproporzionato in rapporto al sacrificio imposto al lavoratore, alla sua retribuzione, al livello professionale raggiunto e ai minori guadagni che questo potrà realizzare.

Più ampio è il patto di non concorrenza, maggiore dovrà essere il corrispettivo corrisposto al lavoratore. Ad esempio, impedire ad un consulente informatico di lavorare per altre aziende tecnologiche per due anni richiederebbe un corrispettivo molto elevato.

A tal proposito, la giurisprudenza è ormai costante nel ritenere che il corrispettivo minimo in favore del lavoratore per un patto di non concorrenza debba aggirarsi intorno al 20%-30% della retribuzione lorda annua; fermo restando che, qualora l’ambito del patto di non concorrenza sia vasto, la percentuale dovrà essere maggiore (nell’esempio di cui sopra, dovrebbe aggirarsi intorno al 70-80% della retribuzione).

Se il corrispettivo stabilito per il lavoratore non è congruo rispetto al sacrificio a questi imposto, il patto di non concorrenza si considera nullo.

Il corrispettivo in favore del lavoratore può essere erogato una tantum al momento della cessazione del rapporto di lavoro, oppure in costanza del rapporto di lavoro, quale percentuale fissa – o a volte crescente, in funzione dello sviluppo professionale – della retribuzione.

Nel primo caso, il corrispettivo rimane assoggettato al medesimo regime fiscale di tassazione separata del trattamento di fine rapporto e sottratto agli obblighi contributivi. Se invece il corrispettivo viene percepito dal lavoratore prima della cessazione del rapporto di lavoro (sotto forma di percentuale sulla retribuzione), il corrispettivo ha natura retributiva, concorre a formare la base per il calcolo del trattamento di fine rapporto ed è sottoposto allo stesso trattamento fiscale e contributivo della retribuzione del lavoratore.

Questa seconda ipotesi – che risulta prevalente nella prassi – pone alcune criticità. Infatti, fatto salvo il caso in cui venga comunque prevista una misura minima, tramite versamento di un eventuale conguaglio al momento della cessazione del rapporto di lavoro, l’erogazione del corrispettivo in costanza del rapporto rende difficilmente determinabile ex ante la contropartita economica alle future – e certe – limitazioni all’attività di lavoro del prestatore, e dunque pone a rischio di nullità il patto.

Inoltre, il dipendente che abbia già percepito l’intera utilità economica prevista dal patto – avendone oltretutto sofferto un maggior carico fiscale – si troverà a doverne sopportare soltanto gli effetti sfavorevoli – in termini di maggiori difficoltà occupazionali e perdita di reddito – ed avrà dunque tutto l’interesse a contestare la validità del patto, da cui non trae più alcun utile, confidando sul recupero delle maggiori opportunità di impiego pregiudicate dal patto. Qualora poi il corrispettivo percepito sia stato particolarmente esiguo, e dunque presumibilmente inadeguato a ristorare la perdita di opportunità professionali e reddituali, il lavoratore sarà più facilmente indotto a violare il patto, confidando sui limitati effetti di un’eventuale domanda di restituzione del corrispettivo che dovesse seguire all’accertamento in giudizio della nullità del patto.

In terzo luogo, il patto può riguardare qualunque tipo di attività autonoma o subordinata che possa nuocere all’azienda, e può non essere limitato alle sole mansioni svolte dal lavoratore ma estendersi a qualsiasi attività in concorrenza con quella del datore di lavoro.

Non possono essere invece oggetto del patto attività estranee allo specifico settore produttivo o commerciale nel quale opera l’azienda, in quanto inidonee ad integrare concorrenza.

Inoltre, il patto di non concorrenza non può precludere o rendere eccessivamente difficile al lavoratore di svolgere un’attività conforme alla qualificazione professionale maturata nel corso degli anni. Se il patto di non concorrenza impone al lavoratore restrizioni eccessivamente ampie da impedire al lavoratore di poter lavorare in futuro, esso si considera nullo.

In questo senso, si è ritenuto non valido un patto di non concorrenza il cui oggetto era riferito genericamente ai clienti di una impresa, in quanto avente un oggetto indeterminato e perché il lavoratore non può essere a conoscenza di tutta la clientela in considerazione della normale riservatezza che caratterizza questo genere di rapporti.

In quarto luogo, nel patto deve essere individuata un’area geografica, avente un’estensione congrua. La congruità del limite territoriale andrà valutata insieme all’oggetto e al compenso per il lavoratore.

L’estensione geografica del patto è quindi strettamente connessa all’oggetto del patto stesso: può essere valida una limitazione ampia a tutto il territorio italiano, ad esempio, se comunque il lavoratore può ugualmente esplicare la propria attività.

La giurisprudenza recente è incline ad assecondare l’interesse del datore di lavoro ad una maggiore estensione territoriale del patto di non concorrenza, in ragione del cambiamento del tessuto economico e del potenziale sviluppo dei mercati reso possibile dalle nuove tecniche di comunicazione. In questo senso, assume rilevanza non tanto l’estensione territoriale in sé del patto, quanto piuttosto l’effetto della sua combinazione con la limitazione, più o meno penetrante, all’attività concorrenziale, in rapporto alla possibilità di spendere le competenze professionali da parte del lavoratore.

Infine, il patto di non concorrenza non può avere durata superiore a 5 anni per i dirigenti e 3 anni per gli altri lavoratori subordinati.

Entro questi limiti, la valutazione della durata del patto di non concorrenza è strettamente connessa alla durata del contratto di lavoro: quanto più quest’ultimo dura, tanto più sarà valida la limitazione imposta dal datore di lavoro al termine del contratto. Se ad esempio un contratto di lavoro è durato solo 1 anno, perché cessato per volontà del datore di lavoro, l’eventuale patto di non concorrenza per i 3 anni successivi alla cessazione del rapporto potrebbe essere ritenuto non valido. In questo senso, è opportuno prevedere nel patto di non concorrenza una gradualità del vincolo, direttamente collegata alla durata del rapporto di lavoro o alle motivazioni per cui il rapporto viene a cessare.

 Il corrispettivo previsto a fronte di un patto di non concorrenza deve essere corrisposto al lavoratore solo a condizione che egli rispetti tutte le obbligazioni previste nel patto stesso.

Nel caso invece in cui, alla cessazione del rapporto di lavoro, il lavoratore violi il patto di non concorrenza, il datore di lavoro potrà:

  • risolvere il patto di non concorrenza per inadempimento, chiedere la restituzione del corrispettivo pagato ed il risarcimento dei danni subiti a causa dell’attività svolta dall’ex dipendente in concorrenza (danni che potrebbero essere stati predeterminati da una clausola penale);
  • chiedere l’adempimento del patto di non concorrenza, e conseguentemente iniziare una procedura d’urgenza al fine di ottenere dal Giudice un provvedimento che imponga al lavoratore la cessazione dell’attività concorrenziale (ad esempio, di cessare immediatamente la collaborazione con il nuovo datore di lavoro).

IMPLICAZIONI

Nella vicenda oggetto di approfondimento, Sempronio stipulava all’atto di assunzione con la società Epsilon s.p.a un patto  di non concorrenza che prevedeva un corrispettivo minimo annuo sulla base del quale si sarebbe dovuto calcolare quanto dovuto alla fine del rapporto, in proporzione alla durata del rapporto stesso.
Il compenso per il patto di non concorrenza, deve quindi essere congruo rispetto al sacrificio imposto al lavoratore.

La congruità, secondo i giudici, va riferita alla pattuizione non solo di compensi simbolici, ma anche di compensi: “manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue possibilità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiestogli rappresenta per il datore di lavoro, come dal suo ipotetico valore di mercato”. Più specificamente, si è affermato che:

“La congruità del corrispettivo pattuito per il patto di non concorrenza va valutata in relazione alla durata, alle mansioni specifiche del lavoratore ed al suo livello di inquadramento.

È evidente come per il lavoratore il divieto di svolgere attività in concorrenza con l’ex datore di lavoro costituisca di norma un sacrificio notevole, in termini di impiego della propria professionalità, che incide, quindi, sulla sua capacità reddituale dopo la cessazione del rapporto di lavoro.

La giurisprudenza ha, dunque, ritenuto che il divieto di concorrenza non possa essere esteso al punto da privare del tutto il soggetto della possibilità di ottenere il reddito necessario per il suo sostentamento.

È stato, quindi, ritenuto nullo per contrasto con l’ordine pubblico costituzionale il patto di non concorrenza diretto a precludere a una parte la possibilità di impiegare la propria capacità professionale nel settore economico di riferimento, ovvero di comprimere eccessivamente la libertà della capacità lavorativa del soggetto obbligato.

L’art. 2125, cod. civ. non consente, infatti, da una parte, che sia attribuito al datore di lavoro il potere di incidere unilateralmente sulla durata temporale del vincolo, così vanificando la previsione della fissazione di un termine certo; dall’altra, che l’attribuzione patrimoniale pattuita possa essere caducata dalla volontà del medesimo. In altri termini, la limitazione alla libertà di impiego del lavoratore risulta compatibile soltanto con un vincolo stabile, che si presume accettato dallo stesso all’esito di una valutazione della sua convenienza, sulla quale fonda determinate programmazioni della sua attività dopo la cessazione del rapporto.
I  limiti di oggetto del patto possono riguardare una qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro, non dovendosi limitare alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto. Ciò che rileva è l’attività svolta dai due diversi datori di lavoro: se l’ambito in cui esse si esplicano è il medesimo, le due imprese devono essere ritenute in concorrenza, e, di conseguenza, l’ex dipendente che collabori con la seconda viola il patto sottoscritto con la prima.

La nullità può conseguire allorché la ampiezza di oggetto sia tale da comprimere la concreta professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano ogni potenzialità reddituale (da valutarsi in relazione all’intera esperienza lavorativa maturata, non alle sole mansioni da ultimo svolte), specie a fronte di un corrispettivo manifestamente iniquo e sproporzionato in rapporto all’esteso sacrificio richiesto al prestatore ed alla considerevole riduzione delle sue possibilità di guadagno.

E’ stato così ritenuto nullo un accordo in cui si vietava al lavoratore, senza idoneo corrispettivo in suo favore, di occuparsi in settori produttivi che travalicavano l’oggetto sociale della società ex datrice di lavoro, o quando, pur espressamente limitato ai prodotti oggetto dell’attività lavorativa del dipendente, comprendeva attività estranee allo specifico settore produttivo o commerciale nel quale opera l’azienda, ove convergevano domande ed offerte di beni o servizi identici oppure reciprocamente alternativi o fungibili, comunque parimenti idonei ad offrire beni o servizi nel medesimo mercato.

Anche il divieto per il lavoratore di svolgere attività di concorrenza non solo a favore di imprese direttamente concorrenti, ma anche a favore di imprese clienti/utilizzatrici dei beni commercializzati dal datore di lavoro realizza un’asimmetria rispetto alla ratio dell’art. 2125, cod. civ.così come è nullo il patto dove l’oggetto concerne ogni attività in concorrenza con quella di produzione e vendita dell’azienda con riguardo a tutto il territorio nazionale.

RISOLUZIONE SECONDO NORMA

Come abbiamo avuto modo di delineare nel corso dell’approfondimento, il patto di non concorrenza tutela il contemperamento dell’esigenza del lavoratore di esplicare la propria attività lavorativa e quella dell’imprenditore, diretta a garantire il patrimonio di sistemi e di metodi produttivi che caratterizza l’attività aziendale, valore irrinunciabile per l’azienda, dalla divulgazione e dall’utilizzo da parte di concorrenti. Il patto è valido quando, valutato nel suo complesso, lasci in concreto al lavoratore la possibilità di svolgere un’attività lavorativa coerente con la professionalità acquisita, non gli comprometta la possibilità di assicurarsi un guadagno idoneo alle sue esigenze di vita e preveda il pagamento di un corrispettivo congruo rispetto al sacrificio che gli richiede.

Il dipendente in questione alla cessazione del rapporto di lavoro,  riteneva fosse nullo il patto di non concorrenza per  mancanza della determinazione o la determinabilità del
corrispettivo.

Alla nullità del patto di non concorrenza consegue che le somme versate a titolo di corrispettivo, salvo un eventuale mutamento del titolo su cui si fondano, devono essere restituite ai sensi dell’art. 2033, cod. civ.: il datore di lavoro può esercitare, nei limiti della prescrizione decennale, l’azione di ripetizione delle somme corrisposte al lavoratore.

Non è certo se la ripetibilità delle somme si debba intendere al netto o al lordo: al riguardo si ritiene che il datore possa richiedere quanto il dipendente abbia effettivamente percepito (somma netta), non anche le ritenute fiscali operate quale sostituto d’imposta.

Non di rado, all’interno del patto viene prevista una specifica clausola penale che garantisce una tutela “certa” al datore di lavoro per il mancato rispetto del vincolo, con una predeterminazione dell’importo dovuto dall’ex prestatore, senza la necessità della prova del danno, eventualmente salvo il risarcimento del pregiudizio ulteriore.

La giurisprudenza di merito, di norma, ha ritenuto viziato il patto di non concorrenza laddove il pagamento del compenso pattuito sia corrisposto in costanza del rapporto di lavoro, in quanto ciò lo renderebbe indeterminabile, stante l’impossibilità di determinare a priori la durata del rapporto di lavoro.

Gli Ermellini nell’ordinanza  5540/2021 hanno precisato che ferma restando, avuto riguardo all’art. 2125 c.c., la necessità di una rigorosa valutazione in ordine alla sussistenza di un corrispettivo in favore del prestatore che sia “manifestamente iniquo o sproporzionato”, agganciata al sacrificio richiesto al lavoratore ed a ogni circostanza del caso concreto  operano su diversi piani la nullità del patto di non concorrenza per indeterminatezza o indeterminabilità del corrispettivo che spetta al lavoratore, quale vizio del requisito prescritto in generale dall’art. 1346 c.c., per ogni contratto, e la nullità per violazione dell’art. 2125 c.c., laddove il corrispettivo “non è pattuito” ovvero, per ipotesi equiparata dalla giurisprudenza di questa Corte, sia simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato”.

Secondo la Corte, dunque, in caso di indeterminatezza del corrispettivo, la sanzione non può essere quella della nullità dell’intero patto, dovendosi distinguere la mancanza del corrispettivo, dall’ipotesi di indeterminatezza dello stesso.

In  difetto di tale clausola, in caso di violazione del patto da parte del lavoratore, ovvero di attività coincidente con quella vietata, il lavoratore può essere condannato al risarcimento dei danni patiti e patiendi dall’azienda in conseguenza del suo illegittimo comportamento, in misura proporzionale al provato nocumento al patrimonio immateriale dell’azienda nei suoi elementi interni ed esterni.

Il precedente datore di lavoro può altresì richiedere la concessione di un provvedimento cautelare ex art. 700, cod. proc. civ. ed il giudice ordinare al lavoratore di cessare da un rapporto di lavoro subordinato in essere. È possibile, inoltre, in sede cautelare, adottare misure atipiche di coazione indiretta all’esecuzione di tale ordine, ponendosi a carico del lavoratore che non vi ottemperi una somma periodica da corrispondere per l’inadempimento al suddetto ordine.

RISOLUZIONE CASO PRATICO

Alla luce delle premesse normative e delle considerazioni esposte in precedenza dunque, il patto di non concorrenza  può essere valido anche se il corrispettivo concordato è indeterminato, sempre se  determinabile sulla base di elementi oggettivi come il collegamento alla durata del rapporto. Ai fini della validità del patto, occorre valutare due aspetti  ben distinti:la determinatezza o meno del corrispettivo, a norma dell’articolo 1346 del Codice civile e  la congruità del corrispettivo   in quanto “adeguato al sacrificio imposto alla libertà del lavoratore alla cessazione del rapporto” art 1225 cc. Infatti   solo un compenso che sia simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato al sacrificio del lavoratore può comportare la nullità.

La giurisprudenza di legittimità ha affermato quindi che sul primo punto, la variabilità in relazione alla durata del rapporto di lavoro  non comporta una impossibilità di determinarlo sulla base di parametri oggettivi e specificamente indicati nel contratto.

In secondo luogo si specifica che  la congruità va valutata non in astratto ma al momento della  determinazione del corrispettivo Si riconferma che se  risultasse “manifestamente iniquo e sproporzionato rispetto al sacrificio imposto al lavoratore, il patto sarebbe meritevole della estrema sanzione di nullità”.