Il trasferimento disposto dal datore di lavoro e l’inadempimento del lavoratore

 La Società Alfa, operante nel settore siderurgico, con un provvedimento ad hoc imponeva al lavoratore Sempronio  di svolgere – in modo permanente – la sua  prestazione lavorativa presso una diversa unità produttiva rispetto al luogo di prestazione stabilito dal contratto poiché con l’aggravarsi della crisi economica attuale decideva la dimissione di una sede lavorativa. Sempronio ritenendo  detto trasferimento illegittimo, aprioristicamente si sottraeva dall’adempiere quanto intimatogli non presentandosi nella nuova sede lavorativa.. Il manager della società Alfa si rivolgeva dunque al suo rappresentante legale onde valutare la sussistenza di procedimenti disciplinari a carico del lavoratore.

CONTESTO NORMATIVO

 Come noto, il  potere datoriale di disporre il trasferimento del lavoratore subordinato, quale mutamento definitivo del luogo geografico di esecuzione della prestazione lavorativa, è manifestazione del più ampio potere etero-organizzativo riconosciuto al datore di lavoro finalizzato a rispondere alle esigenze di flessibilità ed economicità dell’azienda soddisfatte con l’ottimizzazione della dislocazione dei dipendenti sul territorio interessato. Gli interessi aziendali, tuttavia, devono necessariamente essere conciliati con quelli del dipendente, legati alla propria vita sociale e familiare: per queste ragioni il Legislatore ha previsto dei limiti al ricorso all’istituto del trasferimento, per meglio bilanciare gli interessi delle parti. L’istituto è disciplinato dall’articolo 2103, comma 8, cod. civ., secondo cui il lavoratore “non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra, se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”.
La normativa è integrata da numerose pronunce giurisprudenziali, che si sono rese necessarie per meglio definire i limiti previsti per ricorrere all’istituto, oltre che alla definizione di unità produttiva. Con riferimento a quest’ultima nozione, per unità produttiva si intende l’articolazione autonoma dell’impresa idonea a produrre beni e servizi dell’azienda stessa; pertanto, non tutti i mutamenti del luogo di lavoro integrano la fattispecie del trasferimento. Così, non rientra nella nozione la mera assegnazione a un diverso ufficio ubicato nella medesima sede o a quella che non determina un apprezzabile spostamento geografico del luogo ove svolgere la prestazione. Quanto alle ragioni giustificatrici necessarie affinché il trasferimento possa considerarsi legittimo, queste devono necessariamente sussistere nel momento in cui il provvedimento viene irrogato, ma non ricorre un obbligo per il datore di lavoro di renderle note al dipendente.

E infatti, secondo la giurisprudenza, salvo che la contrattazione collettiva preveda diversamente, in virtù del principio di libertà delle forme il datore di lavoro non è tenuto a osservare alcun obbligo di forma per comunicare il provvedimento, né a rappresentare al lavoratore i motivi del trasferimento. Tuttavia, il Legislatore, per tutelare la posizione del dipendente in costanza del rapporto di lavoro, ha previsto che qualora vengano modificati degli elementi del contratto di lavoro dopo l’assunzione, compresa, quindi, l’ipotesi in cui venga modificato il luogo geografico in cui è richiesto lo svolgimento della prestazione lavorativa, il datore di lavoro debba comunicarlo al dipendente per iscritto. Allo stesso modo, pur non essendo gravato dall’onere di informare il lavoratore delle motivazioni che hanno determinato la scelta di trasferirlo, il dipendente ha diritto a che il datore di lavoro gli fornisca le suddette ragioni, qualora espressamente da lui richieste. In sede giudiziale, è sul datore di lavoro che grava l’onere di allegare e provare le ragioni tecniche, organizzative e produttive che hanno reso necessario il trasferimento, così da permettere al giudice di operare un controllo sulla legittimità del provvedimento. Ma fin dove può spingersi il controllo giurisprudenziale? Detto controllo deve essere posto in relazione e mediato dall’art.41 della Costituzione che prevede il principio di libertà di iniziativa economica privata, che garantisce al datore di lavoro di adottare i provvedimenti che ritiene più opportuni per la propria attività imprenditoriale. Si ritiene, pertanto, che il controllo operato dal giudice in merito alle ragioni che hanno determinato il trasferimento sia, di fatto, limitato a valutare la corrispondenza tra il trasferimento e le finalità tipiche dell’impresa; più precisamente, il trasferimento deve rispondere a una scelta imprenditoriale reale e ragionevole. L’oggetto di indagine verte unicamente sulla valutazione oggettiva delle condizioni in cui versa l’unità produttiva interessata e sul nesso di causalità con il provvedimento, ossia la circostanza per cui il trasferimento disposto sia uno strumento utile per rimuovere la situazione suscettibile di pregiudicare lo svolgimento dell’attività dell’impresa; la scelta di trasferire un dipendente non deve, quindi, avere i caratteri dell’inevitabilità, ma è sufficiente che si appalesi quale decisione ragionevole adottata dal datore di lavoro. In ogni caso, trovano pur sempre applicazione i generali principi di correttezza e buona fede, per cui il datore di lavoro è comunque tenuto a preferire differenti soluzioni organizzative che determinano conseguenze meno gravose per il dipendente, se permettono di addivenire al medesimo scopo.
Ciò vuol dire, per giurisprudenza costante, che un dipendente può essere trasferito solo a condizione che il datore di lavoro possa dimostrare:

  • l’inutilità di tale dipendente nella sede di provenienza;
  • la necessità della presenza di quel dipendente, con la sua particolare professionalità, nella sede di destinazione;
  • la serietà delle ragioni che hanno fatto cadere la scelta proprio su quel dipendente e non su altri colleghi che svolgano analoghe mansioni.

Tutte queste ragioni debbono essere portate a conoscenza del dipendente per iscritto, prima del trasferimento.
Se la lettera non contiene l’indicazione delle ragioni è però necessario che il dipendente le richieda espressamente.

In mancanza delle condizioni sopra indicate, il trasferimento è illegittimo e può essere annullato dal giudice del lavoro a cui l’interessato deve rivolgersi se ritiene che il provvedimento sia illegittimo.

Il trasferimento, di cui si è parlato e che è regolato dal citato art. 2103, presuppone che, nonostante la modifica del luogo di esecuzione della prestazione lavorativa, resti invariato il datore di lavoro.
La fattispecie è invece diversa qualora nei confronti del lavoratore venga disposto non solo il trasferimento da una sede di lavoro ad un’altra, ma anche il passaggio alle dipendenze di altra società, pur se consociata a quella di provenienza.

In questo caso, più che di trasferimento, deve parlarsi di cessione del contratto di lavoro da una società all’altra, che può essere attuato esclusivamente con il consenso del lavoratore, in difetto del quale il trasferimento non può essere attuato.
Se il provvedimento fosse portato ad esecuzione nonostante l’esplicito dissenso del lavoratore, è possibile proporre ricorso al Giudice del Lavoro per ottenere la revoca giudiziale del trasferimento.

Particolare attenzione è stata rivolta dalla giurisprudenza al caso di trasferimento presso lo stesso comune della sede di lavoro.

Una particolare ipotesi che legittima il trasferimento, che potrebbe paventarsi quale provvedimento disciplinare, poiché attiene alla persona del lavoratore, è l’incompatibilità ambientale, che, tuttavia, trovando la sua ragione nella disorganizzazione e disfunzione dell’unità produttiva, va ricondotta tra le esigenze tecniche, organizzative e produttive. Quando la condotta tenuta dal dipendente determina delle disfunzioni nel corretto operato dell’azienda, il datore di lavoro può legittimamente ricorrere all’istituto del trasferimento. In quest’ipotesi il controllo giurisdizionale circa la legittimità del provvedimento prescinde dalla possibile colpa del dipendente trasferito; l’Autorità giudiziaria, infatti, dovrà operare un controllo limitato alla valutazione dell’incompatibilità del lavoratore presso l’unità produttiva, che, determinando tensioni e contrasti tra i dipendenti, possa cagionare disfunzioni all’attività dell’azienda, realizzando, pertanto, un’effettiva e reale esigenza a che il lavoratore venga trasferito presso un’altra unità produttiva.

Tra le ipotesi di incompatibilità rientra anche quella in cui il dipendente, nel regime di appalto, sia non gradito dal committente; ricorrono sovente, infatti, nei contratti di appalto le clausole di gradimento che legittimano la società committente a richiedere alle proprie controparti contrattuali l’allontanamento del dipendente ritenuto non gradito, decisione ritenuta legittima, poiché rientrante tra le ragioni tecniche, organizzative e produttive che giustificano il trasferimento ex articolo 2103, cod. civ.21.

Particolari previsioni sono riservate ad alcune categorie di lavoratori in ragione delle funzioni che espletano e delle condizioni personali e familiari; i dirigenti sindacali, ad esempio, per essere trasferiti necessitano di un nulla osta da parte dell’associazione sindacale di appartenenza, in caso contrario il provvedimento disposto dal datore di lavoro potrà configurarsi quale condotta antisindacale ex articolo 28, St. Lav..

Ad alcuni dipendenti il Legislatore ha riservato l’istituto del trasferimento per agevolare l’assistenza da prestare a un familiare disabile; così, il lavoratore che usufruisce dei permessi di cui all’articolo 33, L. 104/1992, ha diritto di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio, diritto che permane anche in costanza del rapporto di lavoro, quindi tutelato con il ricorso all’istituto del trasferimento.

IMPLICAZIONI

Nella  questione oggetto di approfondimento,  la  Società Alfa, operante nel settore siderurgico, con un provvedimento ad hoc imponeva al lavoratore Sempronio  di svolgere – in modo permanente – la sua  prestazione lavorativa presso una diversa unità produttiva rispetto al luogo di prestazione stabilito dal contratto poiché con l’aggravarsi della crisi economica attuale decideva la dimissione di una sede lavorativa. Sempronio ritenendo  detto trasferimento illegittimo, aprioristicamente si sottraeva dall’adempiere quanto intimatogli non presentandosi nella nuova sede lavorativa.

La normativa prevede, altresì, che lo stesso lavoratore non possa essere trasferito presso altra sede senza il suo consenso: in quest’ipotesi il divieto di trasferimento opera, in deroga al generale riferimento alla sola unità produttiva, anche con riferimento al mutamento definitivo del luogo geografico ove il dipendente presta la propria attività lavorativa, anche se all’interno della medesima unità produttiva.

Anche in tale ipotesi, tuttavia, la giurisprudenza ricorda che devono necessariamente essere controbilanciati gli interessi delle parti, sicché l’inciso “ove possibile”, richiamato dalla legge, determina che il diritto sopra richiamato riconosciuto al dipendente che assiste un familiare disabile non può comunque comportare un’eccessiva lesione alle esigenze economiche e organizzative del datore di lavoro. E, infatti, qualora il datore di lavoro alleghi e provi che le specifiche esigenze tecniche, organizzative e produttive non siano suscettibili di essere soddisfatte in diverso modo, il provvedimento sarà ritenuto legittimo.

Qualora il lavoratore ritenga che il trasferimento intimatogli non possegga i requisiti previsti dalla normativa può impugnare il provvedimento nei termini di legge e adire successivamente l’Autorità giudiziaria per ottenere una pronuncia che accerti l’illegittimità del provvedimento irrogato.

La tutela giurisdizionale, tuttavia, non può fornire una tempestiva risposta alla richiesta del dipendente e, posto che il trasferimento ha sempre un’imminente incidenza nella sua sfera privata, il lavoratore, qualora ricorrano i requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora, può altresì, agire per ottenere un provvedimento d’urgenza, in attesa che venga dichiarata l’illegittimità del trasferimento comminatogli.

Il dipendente che a seguito del trasferimento decida di dimettersi o di risolvere consensualmente il rapporto di lavoro ha diritto alla NASpI; l’indennità di disoccupazione, infatti, pur essendo subordinata all’involontaria disoccupazione, è comunque erogata in favore del dipendente che risolva consensualmente il rapporto di lavoro, purché la sede di destinazione sia a più di 50 km dalla sua residenza e/o sia raggiungibile mediamente in 80 minuti.

Nell’ipotesi in cui il lavoratore ritenga che il trasferimento intimatogli sia illegittimo, come detto, può adire l’Autorità giudiziaria, ma non può, aprioristicamente, rifiutarsi di prestare l’attività lavorativa.

La Corte di Cassazione ha di recente confermato l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui l’inadempimento datoriale non legittima, in via automatica, il rifiuto del lavoratore a eseguire la prestazione lavorativa. Trova applicazione il generale principio della buona fede, richiamato dall’articolo 1460, comma 2, cod. civ., secondo cui nei contratti a prestazioni corrispettive, quali i contratti di lavoro, la parte non inadempiente – nel caso di specie il lavoratore – non può rifiutare l’esecuzione, se detto rifiuto è contrario a buona fede.

È la giurisprudenza a richiamare alcune circostanze, che devono essere valutate dal giudice di merito per giungere a ritenere detto rifiuto contrario o meno a buona fede; in particolare, si dovrà avere riguardo all’entità dell’inadempimento datoriale, all’effettiva incidenza sulle esigenze del lavoratore di vita e familiari, alla formale e puntale esplicitazione delle ragioni di cui all’articolo 2103, cod. civ., alla base del provvedimento di trasferimento, all’effettiva incidenza del comportamento del dipendente sull’attività aziendale.

Questi e altri elementi devono essere valutati alla luce di una corretta valutazione del bilanciamento degli opposti interessi delle parti, ossia quello datoriale, di cui all’articolo 41, Costituzione, e quello del lavoratore, di cui agli articoli 35 e 36, Costituzione. In applicazione della disciplina dei rapporti di scambio e sinallagmatici, pertanto, il rifiuto del lavoratore deve essere proporzionato all’inadempimento del datore di lavoro, proporzionalità che viene ravvisata quando il lavoratore fornisce una reale e seria disponibilità a prestare l’attività lavorativa presso l’originaria sede di lavoro.

Così, a titolo esemplificativo, nell’ipotesi in cui il dipendente trasferito presso altra sede si rifiuti di adempiere al provvedimento intimatogli e comunichi la propria disponibilità a prestare attività lavorativa presso l’originaria sede di lavoro, ma al momento della ripresa dell’attività, dopo un periodo di malattia, non si presenti in servizio, detto rifiuto sarà considerato contrario ai principi di buona fede e correttezza e il provvedimento disciplinare sanzionatorio irrogato dal datore di lavoro sarà considerato legittimo. Il rifiuto del dipendente di trasferirsi può, altresì, esporlo all’incognita circa il futuro esito del giudizio di merito circa la legittimità del trasferimento, del conseguente rifiuto e del licenziamento disciplinare eventualmente comminatogli.

Con riguardo a quest’ultima circostanza, nell’ipotesi in cui all’esito del giudizio di merito venisse accertata l’illegittimità del trasferimento e del conseguente licenziamento e, di contro, la legittimità del rifiuto a trasferirsi – nei termini di cui sopra – rilevante è la tutela riservata al lavoratore: sia nell’ipotesi cui trovi applicazione l’articolo 18, St. Lav., sia il D.Lgs. 23/2015, opererà la tutela reintegratoria.

E, infatti, nelle ipotesi in cui trova applicazione l’articolo 18, St. Lav., configurandosi nel caso un’ipotesi di insussistenza del fatto materiale – quale insussistenza giuridica – il lavoratore verrà reintegrato nel posto di lavoro, così come nella ipotesi in cui operai il regime del contratto a tutele crescenti.

Se a seguito di un ordine di reintegrazione il dipendente non possa essere ricollocato nella sede originaria, il datore di lavoro può disporne il trasferimento presso un’altra unità produttiva, ma, anche in quest’ipotesi, dovrà provare che lo spostamento del luogo di lavoro è stato reso necessario da comprovate esigenze aziendali.

RISOLUZIONE SECONDO NORMA

Come abbiamo avuto modo di delineare nel corso dell’approfondimento il  trasferimento di cui all’art. 2013 Cc risulta legittimo solo se assunto in presenza di adeguate <<ragioni tecniche, organizzative e produttive>>.

Con tali espressioni comunemente s’intende l’impossibilità oggettiva per il lavoratore di prestare attività lavorativa nella originaria sede, l’indispensabilità dello stesso nella sede di trasferimento in ragione delle competenze specifiche dello stesso, le esigenze oggettive di produzione, programmazione e quelle che riguardano la gestione economica del datore di lavoro inerenti la sede di destinazione.

Le motivazioni poste a sostegno del trasferimento non devono comunque essere dettagliatamente indicate al lavoratore, tuttavia, se questi ne fa richiesta, il datore di lavoro è tenuto a comunicarle per iscritto e, ovviamente, anche nell’eventuale giudizio intrapreso dal dipendente.

Le regole di diritto del lavoro riconoscono al datore di lavoro il potere di modificare unilateralmente alcune condizioni del contratto di lavoro. Tra queste vi è il potere di modificare il luogo della prestazione.
Tale potere deve essere esercitato entro il limite previsto dall’art. 2103, 8° comma, c.c. che espressamente sancisce che il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. I singoli CCNL possono prevedere condizioni ulteriori e maggiormente dettagliate.
Con trasferimento del lavoratore si intende il mutamento definitivo della sede lavorativa in cui il lavoratore è chiamato a rendere la prestazione, e si perfeziona quando vi è un mutamento della sede originaria o di quella successivamente modificata.
Sotto il profilo temporale, invece, si differenzia dal trasferimento l’ipotesi della trasferta ove il lavoratore viene inviato temporaneamente in un luogo diverso rispetto a quello contrattualmente previsto mentre il trasferimento comporta un’assegnazione definitiva del lavoratore alla nuova sede di lavoro (cfr. Cass. n. 6240/2006).
Sotto il profilo soggettivo, invece, si distingue dal trasferimento il fenomeno del distacco che ricorre allorquando il lavoratore viene collato presso un altro soggetto a favore del quale svolge la propria prestazione (pur rimanendo dipendente del soggetto distaccante).
Come sopra detto, in base all’art. 2103 c.c., il trasferimento del lavoratore può essere disposto in caso di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.
Si è ritenuto che integrino valide ragioni, ad esempio, le esigenze oggettive di produzione, programmazione e quelle che riguardano la gestione economica del datore di lavoro inerenti la sede di destinazione.
Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l’opportunità del trasferimento è una valutazione insindacabile rimessa al datore ex art. 41 Cost., ma ha precisato che in applicazione dei principi di buona fede e correttezza, come per esempio nel caso in cui il datore «possa far fronte a tali ragioni, mediante soluzioni organizzative per lo stesso paritarie, è tenuto a preferire quella meno gravosa per il lavoratore che adduca la sussistenza di ragioni familiari ostative al trasferimento» (così Cass. n. 1608/2016).
Può integrare una legittima causa di trasferimento la situazione di incompatibilità tra un lavoratore ed i suoi colleghi, quando essa determini disorganizzazione e disfunzione dell’attività produttiva (c.d. trasferimento per incompatibilità ambientale). In questa ipotesi il datore può trasferire il lavoratore senza attivare il procedimento disciplinare in quanto si ritiene che costituisca un’esigenza di carattere tecnico, organizzativo e produttivo (cfr. Cass. n. 5320/2006).
L’atto di trasferimento del datore può essere tuttavia discriminatorio (c.d. trasferimento discriminatorio) se si ricollega a motivazioni inerenti la posizione personale del dipendente (es. lo spostamento di una lavoratrice madre), ed in tale caso è illegittimo perché non configura una manifestazione del potere di iniziativa economica dell’impresa.
In ogni caso, le ragioni tecniche, organizzative e produttive a base del provvedimento devono essere esistenti al momento del trasferimento e devono essere oggettive, con onere di dimostrarle a carico del datore di lavoro in caso di contestazione del lavoratore.
Qualora il trasferimento interessi più dipendenti (c.d. trasferimento collettivo), le ragioni tecniche, organizzative e produttive devono sussistere nei confronti di tutti gli interessati singolarmente considerati. In questo caso la procedura andrà concordata con i sindacati anche in relazione al possibile licenziamento di coloro che dovessero rifiutare il trasferimento e quindi all’applicazione delle norme sul licenziamento collettivo in quanto comunque si verta in ipotesi di licenziamento per motivi oggettivi di un numero di lavoratori potenzialmente superiore a 4.
Dal punto di vista formale il trasferimento deve rispettare i seguenti oneri.
La comunicazione del trasferimento del lavoratore deve avvenire in forma scritta, secondo parte della dottrina, in quanto previsto dall’art. 3 del D.Lgs. 152/1997 secondo il quale il datore deve comunicare al lavoratore «qualsiasi modifica degli elementi di cui agli articoli 1 e 2» e quindi anche il luogo di lavoro previsto dall’art. 1, comma 1, lett. b), del D.Lgs. 152/1997.
Quanto alla necessità del rispetto di un preavviso, spesso la contrattazione collettiva precisa che il datore di lavoro deve effettuare la comunicazione del trasferimento con un congruo termine di preavviso che varia a seconda del settore. Per esempio il CCNL Commercio stabilisce in caso di trasferimento dei lavoratori con responsabilità di direzione esecutiva un preavviso di 45 giorni qualora dal trasferimento ne derivi un mutamento di residenza per il dipendente mentre il preavviso aumenta a 70 giorni per i dipendenti con familiari a carico (art. 182 CCNL Confcommercio). Diversi termini sono previsti per la categoria dei quadri.
La comunicazione del trasferimento, salvo l’obbligo della forma scritta e l’eventuale preavviso (se previsto dalla contrattazione collettiva) non deve seguire ulteriori prescrizioni di forma quali l’obbligo di motivazione, salvo diversa disposizione della contrattazione collettiva.
Il datore di lavoro pertanto non è obbligato a enunciare le ragioni del trasferimento contestualmente alla sua adozione ma secondo una parte della giurisprudenza (Cass. n. 24260/2013) il datore sarebbe tenuto a rilasciare le motivazioni nel caso in cui il lavoratore ne faccia richiesta. In difetto di tale comunicazione la richiamata sentenza ha ritenuto illegittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che abbia rifiutato il trasferimento. Secondo, invece, un opposto orientamento il datore di lavoro non ha l’onere di motivare il trasferimento neppure nel caso in cui gli sia richiesto dal lavoratore (cfr. Cass. n. 807/2017).
In ogni caso, e sul punto concordano entrambi gli orientamenti, qualora venga contestata la legittimità del trasferimento, spetta in giudizio al datore di lavoro dimostrare l’esistenza delle fondate ragioni che lo hanno determinato.
Qualora il trasferimento risulti non essere posto in essere legittimamente perché in assenza delle ragioni sopra viste previste dalla legge può essere impugnato da parte del dipendente.
L’art. 32, comma 3, lett. c) della legge 183/2010 prevede che si applichino all’impugnazione del trasferimento i termini di decadenza previsti dall’art. 6 della legge 604/1966 ovvero:
• 60 giorni per l’impugnazione stragiudiziale;
• 180 giorni per il deposito del ricorso.
Si sottolinea che ai fini di una valida impugnazione è necessario che il lavoratore manifesti in modo esplicito ed univoco la volontà di contestare la validità e l’efficacia del provvedimento aziendale.
Oltre all’impugnativa stragiudiziale e poi giudiziale del trasferimento, ci si è posti la domanda se il lavoratore possa legittimamente rifiutarsi di recarsi presso il luogo in cui sia stato trasferito qualora ritenga il trasferimento illegittimo. Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che in caso di trasferimento illegittimo il lavoratore potesse rifiutarsi di recarsi presso la nuova sede sollevando l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. che consente a ciascuno dei contraenti di rifiutarsi di adempiere la propria obbligazione se l’altro non adempie. Tale rifiuto, secondo la giurisprudenza più recente – in contrasto con precedenti pronunce – non deve essere necessariamente «preventivamente avallato in via giudiziale per il tramite eventualmente dell’attivazione di una procedura in via di urgenza ai sensi dell’articolo 700 c.p.c.» (così Cass. 11408/2018). Tuttavia, la Cassazione ha chiarito che in tale caso il rifiuto del lavoratore per essere legittimo deve essere: proporzionato all’inadempimento datoriale, accompagnato da una seria ed effettiva disponibilità a prestare servizio presso la sede originaria (cfr. Cass. n. 3959/2016) e non deve essere contrario a buona fede (cfr. Cass. n. 11408/2018). In difetto di tali requisiti il rifiuto del lavoratore determina un’assenza ingiustificata, che, se protratta nel tempo, può configurare giusta causa di licenziamento.

RISOLUZIONE CASO PRATICO

Alla luce delle premesse normative e delle considerazioni esposte in precedenza dunque, la scelta di non conformarsi al provvedimento di trasferimento, infatti, può esporre il dipendente a una reazione datoriale che si manifesta con sanzioni disciplinari tra le quali ricorre il licenziamento; per questa ragione è necessario che il rifiuto del lavoratore sia accompagnato non solo da serie ed effettive motivazioni che lo giustifichino, ma, altresì, dalla manifestazione di disponibilità a proseguire la propria attività lavorativa presso la precedente sede di lavoro, disponibilità che deve essere effettiva.

Come spiega la giurisprudenza, il giudice, ove venga proposta dal dipendente l’eccezione di inadempimento – che consiste nel rifiuto del lavoratore di rendere la prestazione fondato sulla allegazione dell’inadempimento, anche parziale, del datore – deve procedere ad “una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, al fine di stabilire quale sia più grave” (Cass. 21391/2019). 

In altre parole, l’inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa in quanto ai contratti a prestazioni corrispettive si applica l’art. 1460, comma 2, c.c. secondo cui la parte può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario alla buona fede (Cass. 11408/2018). 

Dunque, tutto dipende dall’esito del confronto tra i due inadempimenti: se emerge una sproporzione dell’inadempimento del dipendente rispetto a quello del datore (nel senso che, ad esempio, il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione incide eccessivamente sulla organizzazione datoriale e sulla realizzazione degli interessi aziendali), il rifiuto del dipendente di eseguire il trasferimento sarà illegittimo. Se, viceversa, l’inadempimento datoriale va ad incidere significativamente su fondamentali esigenze di vita e familiari del lavoratore, sarà allora legittimo l’inadempimento del dipendente.