Attività sportiva durante l’infortunio: si procede in ogni caso al licenziamento?

La Società Beta, operante nel settore merceologico, procedeva  al licenziamento del dipendente Sempronio ,il quale, assente dal lavoro per malattia ,era stato sorpreso ad arbitrare partite di calcio. Il dipendente, si rivolgeva al suo legale rappresentante  per impugnare tale licenziamento alla luce del fatto che  le  sue residue capacità psico-fisiche gli consentivano lo svolgimento di altre attività lavorative o extralavorative sostanzialmente compatibili col suo stato morboso.

CONTESTO NORMATIVO

Come noto, nel nostro ordinamento non sussiste in capo al lavoratore assente per infortunio o malattia un divieto assoluto di svolgere attività ludica o altra attività lavorativa in proprio o a favore di terzi.

Questo perché, anche laddove la malattia comprometta la possibilità di svolgere quella specifica prestazione oggetto del rapporto di lavoro, le residue capacità psico-fisiche potrebbero comunque consentire al lavoratore lo svolgimento di altre attività lavorative o extralavorative sostanzialmente compatibili col suo stato morboso.

Ne consegue che l’esercizio di tali attività non costituisce, di per sé, violazione degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore. Tuttavia, la giurisprudenza ha al contempo ritenuto che tali condotte non siano del tutto irrilevanti sul piano disciplinare e che giustifichino il licenziamento – per violazione dei principi generali di correttezza e buona fede di cui agli articoli 1175 e 1375, cod. civ., e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà di cui agli articoli 2104 e 2105, cod. civ., che comunque permangono nonostante la sospensione della prestazione lavorativa – laddove la diversa attività svolta faccia presumere l’inesistenza dell’infermità che giustifica l’assenza (dimostrando, quindi, una sua fraudolenta simulazione) ovvero sia tale – tenuto conto della natura della malattia denunciata e delle mansioni svolte dal dipendente – da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione e il rientro in servizio.

La mancata prestazione lavorativa a causa dello stato di infortunio o malattia viene tutelata dall’ordinamento purché non sia imputabile alla condotta volontaria del lavoratore che operi scelte idonee a pregiudicare l’interesse datoriale a ricevere regolarmente la prestazione lavorativa. Come sottolineato dalla Suprema Corte con la recentissima sentenza 13063/2022: “In tale prospettiva assume peculiare rilievo l’eventuale violazione del dovere di osservare tutte le cautele, comprese quelle terapeutiche e di riposo prescritte dal medico, atte a non pregiudicare il recupero delle energie lavorative temporaneamente minate dall’infermità, affinché vengano ristabilite le condizioni di salute idonee per adempiere la prestazione principale cui si è obbligati”.

Un datore di lavoro può intimare il licenziamento per giusta causa al lavoratore che eserciti un’attività, in particolare per quanto ci occupa un’attività sportiva, che interferisca in maniera evidente con l’attività lavorativa principale svolta dal dipendente e per il quale esso è retribuito.
Ovviamente, non qualunque attività sportiva esercitata dal lavoratore fuori dall’orario di lavoro giustificherà il licenziamento, tuttavia le valutazioni da fare, necessariamente da svolgere di volta in volta in base al caso concreto, non sono delle più semplici.
Una attività sportiva agonistica, o financo professionistica, potrebbe essere considerata accettabile e non pregiudicante l’attività lavorativa qualora non sussistano ripercussioni di sorta sulla qualità e quantità del lavoro prestato dal lavoratore, mentre un’attività non agonistica, o finanche esercitata con sole finalità ricreative potrebbe comportare in taluni casi un pregiudizio al normale svolgimento delle attività lavorative del lavoratore.
Il discrimine sembra doversi individuare nella capacità del lavoratore di sostenere entrambe le attività senza che ciò comporti un peggioramento delle sue prestazioni lavorative sia per quanto riguarda la qualità, sia per quanto riguarda la quantità delle stesse.
Tale peggioramento, se non accompagnato dall’immediata rinuncia all’attività sportiva da parte del lavoratore, andrebbe a compromettere sicuramente il rapporto fiduciario intercorrente tra datore di lavoro e lavoratore.
Gli obblighi posti in capo a quest’ultimo, infatti, non si limitano all’obbligo di fedeltà previsto dall’art. 2105 c.c., con il quale il lavoratore si impegna a non trattare affari in concorrenza con l’imprenditore e a non divulgare notizie attinenti all’impresa.
La ratio di detta norma, che autorizza questi obblighi, è inspirata dalla necessità di far sì che il lavoratore non rechi, con il suo comportamento, un pregiudizio diretto all’impresa.
Tuttavia, sulla scorta della stessa motivazione, ossia l’esigenza che il lavoratore non arrechi pregiudizio o danno alla stessa impresa per cui lavora, è possibile dilatare, sulla scorta di quanto sostenuto dalla Cassazione con sentenza 144/2015, l’obbligo di fedeltà del lavoratore fino a farvi ricomprendere anche i doveri di buona fede e correttezza da tenere non solo in ambito lavorativo, ma anche in ambito extralavorativo, di modo che il lavoratore deve garantire che le attività sportive esercitate nel proprio tempo libero non comportino uno scadimento della resa lavorativa.
Se sicuramente il licenziamento del lavoratore potrà apparire ingiustificato qualora non vi sia un apprezzabile scadimento della qualità del lavoro, correlato e attribuibile alla compresenza dell’attività sportiva sostenuta, di pari passo esso apparirà solo eccessivo, ma non ingiustificato o illegittimo, qualora l’attività fisica estranea al rapporto di lavoro comporti uno scadimento lieve della qualità del lavoro del dipendente oppure anche qualora si renda necessario un cambio di mansioni oppure si verifichi l’assenza, giustificata, per brevi periodi dal posto di lavoro, mentre sarà sicuramente legittimo e giustificato il licenziamento del lavoratore che, già demansionato a causa dell’impossibilità di mantenere le abituali mansioni, continui nell’esercizio dell’attività sportiva pregiudizievole, o comunque si assenti dal lavoro per frequenti e/o lunghi periodi per rimediare agli infortuni occorsi, fuori dal luogo di lavoro, nell’esercizio di un’attività sportiva esercitata in modo continuativo e continuativamente pregiudizievole agli interessi dell’impresa.

IMPLICAZIONI

Nella  questione oggetto di approfondimento,  un  lavoratore impugnava il licenziamento intimatogli dal proprio datore di lavoro all’esito di un procedimento disciplinare col quale gli veniva contestato di aver arbitrato 4 partite di calcio durante il periodo di sospensione obbligatoria dal lavoro per infortunio – e successivamente per malattia – occorsogli al gomito, violando peraltro, in uno degli episodi contestati, l’obbligo di reperibilità vigente nelle fasce orarie di controllo.

Il lavoratore si difendeva evidenziando come l’attività extralavorativa contestata non fosse di per sé idonea a pregiudicare o a ritardare la guarigione e il suo tempestivo rientro al lavoro.

Come visto poco sopra non sussiste un divieto assoluto di svolgere attività lavorativa, ricreativa o sportiva durante lo stato di infortunio o malattia. Vi è, però, un limite: tale attività non deve essere incompatibile con la patologia sofferta, che altrimenti risulterebbe simulata, e non deve in alcun modo aggravare, o anche solo ritardare, la ripresa in servizio.

Il giudice di merito è, quindi, chiamato a effettuare una valutazione ex ante, di tipo prognostico, sull’idoneità della condotta contestata a pregiudicare, anche solo potenzialmente, la ripresa in servizio, rimanendo, quindi, irrilevante che il lavoratore sia poi comunque tempestivamente rientrato al lavoro.

Il giudice dovrà accertare in concreto, caso per caso, se la condotta contestata al dipendente sia idonea a compromettere il vincolo fiduciario alla base del rapporto di lavoro e a legittimare, quindi, il licenziamento per giusta causa.

Dovrà, pertanto, valutare modalità, tempi e luoghi della diversa attività svolta dal dipendente in costanza di malattia, esaminare le caratteristiche della patologia diagnosticata e, da ultimo, verificare, eventualmente con l’ausilio di una consulenza tecnica, se da tali elementi emerga la prova che la malattia fosse fittizia o che la condotta tenuta dal lavoratore fosse potenzialmente idonea a pregiudicare o comunque a ritardare il rientro al lavoro.

Se rispetto a quanto sinora ricostruito la giurisprudenza è del tutto concorde, diversi sono, invece, gli orientamenti in ordine alla ripartizione degli oneri probatori in caso di licenziamento intimato in queste fattispecie.

Secondo un primo filone giurisprudenziale, in virtù del criterio di vicinanza alla fonte di prova, spetterebbe al lavoratore dimostrare la compatibilità delle attività svolte con lo stato di malattia e, quindi, la loro inidoneità a pregiudicare il regolare recupero delle normali energie psico-fisiche.

Al contrario, per altro indirizzo giurisprudenziale, la prova dell’incidenza della diversa attività lavorativa o extralavorativa nel ritardare o pregiudicare la guarigione ai fini del rilievo sul piano disciplinare sarebbe comunque a carico del datore di lavoro, in virtù della regola generale dettata in tema di licenziamento dall’articolo5, L. 604/1966, in base alla quale:

“L’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro”.

Tale onere probatorio, gravante per espressa previsione di legge sul datore di lavoro, supererebbe il criterio empirico di vicinanza alla fonte di prova.

Per dimostrare quanto sopra il datore di lavoro può ricorrere alle visite fiscali, ossia ai controlli delle assenze per infermità tramite i servizi ispettivi dell’Inps, ma può anche avvalersi di indagini investigative. Sul punto gli Ermellini, anche recentemente, hanno ribadito che:

“In tema di licenziamento per giusta causa, le disposizioni dell’art. 5 St. Lav., che vietano al datore di lavoro di svolgere accertamenti sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente e lo autorizzano a effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, non precludono al datore medesimo di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato d’incapacità lavorativa rilevante e, quindi, a giustificare l’assenza.

RISOLUZIONE SECONDO NORMA

Come abbiamo avuto modo di delineare nel corso dell’approfondimento non sussiste un divieto assoluto di svolgere attività lavorativa, ricreativa o sportiva durante lo stato di infortunio o malattia. Vi è, però, un limite: tale attività non deve essere incompatibile con la patologia sofferta, che altrimenti risulterebbe simulata, e non deve in alcun modo aggravare, o anche solo ritardare, la ripresa in servizio.

La Suprema Corte ha ritenuto, ad esempio, legittimo il licenziamento disciplinare dell’operaio assente in malattia, e tenuto a osservare un rigido riposo, colto a dedicarsi alla propria terra, guidando un trattore e caricando e scaricando manualmente della legna. In tal caso gli Ermellini hanno rilevato l’abuso compiuto dal dipendente, consistito nel compimento di sforzi non consentiti dalle prescrizioni mediche e tali da porre potenzialmente in pericolo o ritardare la sua guarigione.

Parimenti, ha dichiarato legittimo il licenziamento del lavoratore assente per lombalgia a seguito di infortunio, ma operativo, e con grosso impegno fisico, in una pizzeria di cui era anche comproprietario. Nello specifico, il dipendente era stato sorpreso a servire la clientela e a svolgere i più comuni compiti di ristoratore nonché a compiere una serie di operazioni complementari, compresa quella di trascinare un pesante bidone in plastica per la spazzatura.

E, ancora, la Cassazione ha confermato il licenziamento disciplinare intimato al lavoratore per aver quest’ultimo svolto, durante la sospensione coatta dal lavoro, attività lavorativa presso la caffetteria gestita dalla figlia. Dall’istruttoria era, infatti, emerso che tale attività richiedeva il compimento di movimenti incompatibili con la situazione di infortunio.
Tra le pronunce di merito più recenti si segnala quella del Tribunale di Alessandria del 25 ottobre 2021, che, in linea con le summenzionate decisioni di legittimità, ha confermato il licenziamento per giusta causa del dipendente assente in malattia – che peraltro aveva prorogato più volte, riuscendo così a coprire l’intera stagione estiva – scoperto a lavorare nel bed and breakfast della moglie come cuoco e addetto al servizio ai tavoli. Nel caso di specie, il giudice ha tenuto conto anche di quanto emerso dalle risultanze del web (recensioni di Tripadvisor, pagina Facebook e sito internet della struttura).

Gli Ermellini hanno, invece, ritenuto illegittimo il licenziamento intimato a un operaio generico che, durante il periodo di malattia, aveva prestato aiuto a un proprio parente presso un’agenzia immobiliare, in quanto in corso di istruttoria è emerso che l’attività svolta non era incompatibile con l’accertata epatopatia cronica evolutiva – comportante uno stato di prostrazione fisico e psichico – di cui era affetto, trattandosi di un’attività sporadica e occasionale, non assimilabile a una prestazione lavorativa e certamente poco impegnativa dal punto di vista fisico e psichico, che, anzi, non solo – stante la sua dimensione qualitativa e quantitativa – era del tutto compatibile con la malattia sofferta, ma addirittura poteva dirsi funzionale a una più pronta guarigione. Analogamente, la Corte d’Appello di Bologna ha dichiarato illegittimo il licenziamento di un lavoratore impegnato in altra attività lavorativa “atteso il carattere assolutamente minimale dell’attività svolta dal dipendente assente per malattia nella giornata in contestazione sia in sé considerato sia per il limitatissimo impegno fisico richiesto ed atteso che l’accertamento ha avuto ad oggetto una sola giornata e non un più significativo arco di tempo.

In ordine allo svolgimento di attività extralavorative, la Suprema Corte ha, ad esempio, ritenuto legittimo il licenziamento intimato a un lavoratore assente in malattia per lombosciatalgia acuta, sorpreso a sollevare una bombola del gas da 25 kg, a sostituire una ruota della propria auto con quella di scorta e a sollevare in braccio la figlia dondolandola mentre camminava, indici, questi, di una buona efficienza fisica, del tutto incompatibili con la patologia dichiarata14. In particolare, gli Ermellini hanno precisato che:

“può assumere rilievo disciplinare anche una condotta che, seppure compiuta al di fuori della prestazione lavorativa, sia idonea, per le modalità concrete con cui essa si manifesta, ad arrecare un pregiudizio non necessariamente di ordine economico al datore di lavoro”.

Con riferimento alla pratica di attività fisica, la Cassazione ha confermato l’illegittimità del licenziamento del lavoratore, in malattia per una distorsione al ginocchio, che, durante il periodo di recupero, si era dedicato a una moderata attività fisica, consistente in brevi passeggiate e bagni di mare.

In un altro caso ha, invece, cassato la decisione di merito che aveva ritenuto non giustificato il licenziamento di un lavoratore che, pur rientrato in servizio alla scadenza della prognosi, aveva effettuato, in costanza di malattia per colica addominale, 3 immersioni di pesca subacquea.

E, ancora, gli Ermellini hanno confermato il licenziamento del lavoratore in malattia, per distorsione alla caviglia riportata a seguito di un infortunio sul lavoro, sorpreso a partecipare a 2 partite di calcio, in netto contrasto con le precarie condizioni fisiche e con aggravamento dei postumi, ritenendo tale condotta gravemente lesiva del vincolo fiduciario.

Peculiare, poi, la recente pronuncia della Corte d’Appello di Brescia, in quanto ha ritenuto che il mancato rispetto da parte del lavoratore infortunato delle prescrizioni mediche di astenersi da ogni attività sportiva sia privo di rilevanza disciplinare se, di fatto, non prolunga la degenza.

Da ultimo, si evidenzia come la valutazione che il giudice è chiamato a effettuare risulti più complessa nelle ipotesi di patologie psichiche o neurologiche per le quali l’attività ricreativa o sportiva può avere anche finalità terapeutiche, e per tale motivo risultare, pertanto, ammessa.

RISOLUZIONE CASO PRATICO

Alla luce delle premesse normative e delle considerazioni esposte in precedenza dunque, il lavoratore può legittimamente impugnare il licenziamento. Da un esame delle circostanze di fatto è, infatti, emerso che la natura della patologia e la modesta entità dell’infortunio occorso al lavoratore – che non sono stati posti in discussione dal datore – non potevano essere ritenuti di ostacolo allo svolgimento di attività sportiva durante la sospensione coatta dal lavoro, come, invece, ritenuto in sede di contestazione disciplinare.

Tale attività ha, da un lato, impegnato il lavoratore per poco tempo, in quanto è risultata, di fatto, consistere nella partecipazione, in qualità di arbitro, a poche partite di calcio della durata media di un’ora e mezza ciascuna e, dall’altro, non ha interessato l’arto superiore infortunato – peraltro in misura modesta – che comunque era stato adeguatamente protetto da un apposito bendaggio.

Richiamando il consolidato orientamento della Suprema Corte sul punto, il Tribunale ha evidenziato che:

“lo  svolgimento di attività sportiva in pendenza di malattia o in stato di infortunio non è, per ciò solo, inibito al lavoratore, il quale può legittimamente dedicarsi ad altra occupazione, ricreativa o di intrattenimento, in quanto compatibile con lo stato di malattia e conforme all’obbligo di correttezza e buona fede, gravante sul lavoratore, di adottare ogni cautela idonea perché cessi lo stato di malattia con conseguente recupero dell’idoneità al lavoro”.

In sostanza, per il Tribunale l’attività di arbitraggio, non esponendo il lavoratore ai contrasti di gioco (come invece avviene per i calciatori) e interessando principalmente gli arti inferiori, non può essere valutata ex ante come potenzialmente idonea a pregiudicare la pronta guarigione o il rientro in servizio, come, infatti, non lo è stata nel caso di specie. Pertanto, lo svolgimento della predetta attività ludica da parte del dipendente infortunato non può costituire per il datore di lavoro una giusta causa di recesso ai sensi dell’articolo 2119, cod. civ., non essendo tale da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro.

Ciò premesso, il Tribunale ha al contempo rilevato che la condotta contestata, pur comportando come detto dei rischi contenuti, è stata, tuttavia, reiterata più volte e in un lasso temporale piuttosto breve.

Non solo. Il dipendente ha arbitrato anche in uno dei giorni di malattia nei quali avrebbe dovuto osservare il riposo totale, stante la riacutizzazione del trauma subito.

Così facendo il lavoratore ha accettato il rischio, seppur remoto, di esporsi a nuove occasioni di pericolo per la propria integrità fisica, violando quindi, seppur in misura lieve, i doveri di correttezza e buona fede nell’adempimento dell’obbligazione.

Conseguentemente, il summenzionato comportamento del lavoratore, seppur non idoneo a legittimare il licenziamento in tronco, risulta comunque meritevole di una sanzione disciplinare conservativa.