Codice fiscale in dichiarazione: prova del rapporto professionale

La Corte di Cassazione con ordinanza 25520 del 30 agosto 2022 ha specificato che per dimostrare l’esistenza di un rapporto professionale è di decisivo rilievo il fatto che le dichiarazioni fiscali contengano l’esposizione del Codice fiscale riconducibile allo studio associato, quale intermediario nella relativa presentazione.

E’ stata accolta, in via definitiva, la domanda proposta da uno studio associato di commercialisti al fine di ottenere la condanna di due clienti al pagamento delle somme da questi dovute a titolo di compenso per le prestazioni di tenuta della contabilità ed assistenza fiscale eseguite in loro favore.

I giudici di primo e secondo grado avevano accertato lo svolgimento delle prestazioni rivendicate ed il loro mancato pagamento da parte dei due convenuti.

Questi si erano tuttavia rivolti alla Suprema corte lamentando, in primo luogo, l’erronea configurazione della presunzione circa il conferimento dell’incarico da parte loro allo studio associato, incarico che i ricorrenti avevano espressamente contestato nel corso del giudizio di merito.

In secondo luogo, gli stessi censuravano l’affermazione circa l’esistenza di un credito in capo al medesimo studio associato, in difetto di produzione dello Statuto e di un mandato scritto proveniente dalla società da loro partecipata. 

Nella specie, gli Ermellini hanno evidenziato come la Corte territoriale avesse ravvisato l’esistenza del rapporto professionale valorizzando la circostanza, ritenuta decisiva, che le dichiarazioni fiscali depositate in atti contenevano l’esposizione del codice fiscale riconducibile univocamente allo studio associato, quale intermediario nella relativa presentazione e, quindi, presuntivamente estensore delle stesse.

Di conseguenza, creditore del compenso era da ritenere proprio il predetto studio.

I giudici di gravame, inoltre, avevano considerato inconferente l’affermazione ex adverso avanzata, secondo cui gli odierni ricorrenti non avevano mai avuto consapevolezza di essersi obbligati con un soggetto diverso rispetto al professionista di loro fiducia.

Affermazione, questa, che dimostrava come, contrariamente a quanto sostenuto, la contestazione mossa dagli stessi nei gradi di merito non aveva avuto ad oggetto l’esistenza del rapporto, ma solo la riferibilità del relativo credito in capo all’associazione professionale, anziché al professionista associato menzionato.

Quella resa dalla Corte di secondo grado, ciò posto, costituiva una valutazione di merito, non utilmente censurabile in sede di legittimità, in considerazione dei limiti di deduzione dei vizi previsti dall’art. 360 c.p.c., rispetto alla quale i ricorrenti avevano contrapposto nient’altro che una differente ricostruzione del fatto.

Da qui la declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione dagli stessi promossa.