Nullo il licenziamento seguito a trasferimento ritorsivo rifiutato dal dipendente

Tizio, dipendente di un cartonificio in provincia di Frosinone, veniva, su istanza del datore di lavoro, trasferito nella sede di Milano. Lo stesso dipendente non si presentava nella nuova sede di lavoro adducendo un trasferimento ritorsivo da parte del datore  per aver rifiutato di accettare una proposta di riduzione di inquadramento e di retribuzione e,  pertanto veniva licenziato per giusta causa. Analizziamo dunque le questioni sottese al caso in oggetto.

CONTESTO NORMATIVO

Come noto, nel nostro ordinamento ai sensi dell’articolo 2103 c.c. , comma 8, cod. civ.:

“Il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive”.

Il datore di lavoro, nell’esercizio del proprio potere direttivo, può, quindi, legittimamente disporre il trasferimento del dipendente dall’unità produttiva alla quale è adibito a un’altra solamente in presenza di ragioni tecniche, organizzative e produttive effettive, che devono necessariamente sussistere al momento del trasferimento stesso.

Fermo restando l’onere in capo al datore di lavoro di dimostrare l’esistenza e la fondatezza delle ragioni addotte, laddove il trasferimento sia legittimo, il dipendente non può rifiutarlo, dovendo, quindi, prendere servizio presso la nuova sede di lavoro. In mancanza, il datore di lavoro può intimargli il licenziamento, previa contestazione dell’assenza ingiustificata dal lavoro.

Il lavoratore può, invece, opporsi e rifiutare il trasferimento, eccependo l’inadempimento datoriale ai sensi dell’articolo 1460, cod. civ., nel caso in cui, tenuto conto della lontananza e dell’impatto sulla vita personale – anche in relazione al tipo di lavoro e alla situazione familiare – sia idoneo a pregiudicare significativamente gli interessi personali e familiari del dipendente.

Diversamente, qualora il trasferimento, ancorché illegittimo, non sia connotato da tale gravità e non abbia, quindi, significative ripercussioni sulla vita personale del dipendente, il lavoratore deve comunque prendere servizio presso la nuova sede di lavoro, potendo al contempo avviare, anche eventualmente in via cautelare, un procedimento volto ad accertare l’illegittimità del trasferimento subito.

 In sostanza, il trasferimento adottato dal datore di lavoro in violazione dell’articolo 2103, cod. civ., non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore a eseguire la prestazione lavorativa, in quanto, trattandosi di contratto a prestazioni corrispettive, trova applicazione il disposto dell’articolo 1460, comma 2, cod. civ., in base al quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove il rifiuto, avuto riguardo alle circostanze, non risulti contrario a buona fede.

Considerato che un trasferimento illegittimo costituisce comunque un inadempimento soltanto parziale del datore di lavoro alle sue obbligazioni, e quindi non giustifica di per sé un inadempimento totale del lavoratore, qual è il rifiuto a prendere servizio nella nuova sede, e che al lavoratore è riconosciuto uno strumento di tutela, ossia quello di chiedere l’accertamento giudiziale dell’illegittimità del licenziamento, anche in via d’urgenza, la giurisprudenza richiede una valutazione comparativa tra i 2 inadempimenti in termini di equivalenza e proporzionalità in relazione alle concrete situazioni di fatto. In tale contesto assume, dunque, decisivo rilievo l’impatto che il trasferimento ha sulla vita personale e familiare del lavoratore, ritenendosi che il rifiuto del lavoratore sia conforme a buona fede ove l’inadempimento del datore di lavoro, anche se parziale, assuma un connotato di gravità tale da incidere irrimediabilmente sulle esigenze di vita del lavoratore trasferito, e da renderlo, quindi, comparabile all’inadempimento totale del lavoratore che ha rifiutato di prendere servizio nella nuova sede.

Secondo un orientamento giurisprudenziale, il rifiuto del lavoratore, per essere proporzionato all’inadempimento datoriale, e, quindi, conforme a buona fede, dev’essere accompagnato da una seria ed effettiva disponibilità a prestare servizio presso la sede originaria.

Dal punto di vista procedurale, il lavoratore può impugnare il trasferimento entro 60 giorni dalla data di ricevimento della relativa comunicazione, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la sua volontà. Tale atto diventa, tuttavia, inefficace qualora, nei successivi 180 giorni, il lavoratore non depositi ricorso avanti al giudice del lavoro o non comunichi alla controparte la richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato. In quest’ultimo caso, quando la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati da controparte o diano esito negativo, il ricorso giudiziale dev’essere presentato, a pena di decadenza, entro i 60 giorni successivi al rifiuto o al mancato accordo.

Quando il provvedimento datoriale, trasferimento o licenziamento che sia, può dirsi ritorsivo?

La giurisprudenza ne ha delineato i tratti distintivi pronunciandosi in tema di licenziamento (ma i principi affermati devono ritenersi validi anche in materia di trasferimento).

Il licenziamento ritorsivo (c.d. per rappresaglia) consiste in un’ingiusta e arbitraria reazione del datore di lavoro, essenzialmente quindi di natura vendicativa, a un comportamento legittimo del lavoratore risultato, tuttavia, sgradito. Tale licenziamento è nullo soltanto se il motivo illecito (ossia l’intento ritorsivo) sia l’unica ragione determinante del provvedimento espulsivo, risultando insussistente la causale formalmente addotta dal datore di lavoro. Nello specifico, la Suprema Corte ha affermato che:

“In tema di licenziamento nullo perché ritorsivo, il motivo illecito addotto ex art. 1345 c.c. deve essere determinante, cioè costituire l’unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale; ne consegue che la verifica dei fatti allegati dal lavoratore, ai fini all’applicazione della tutela prevista dall’art. 18, comma 1, l. n. 300 del 1970 novellato dalla l. n. 92 del 2012, richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta a fondamento del licenziamento”.

Diversamente, laddove con il motivo illecito concorra anche un motivo legittimo di licenziamento, quale una giusta causa o un giustificato motivo, il recesso non può ritenersi nullo.

IMPLICAZIONI

Nella  questione oggetto di approfondimento, Tizio, dipendente di un cartonificio in provincia di Frosinone, veniva, su istanza del datore di lavoro, trasferito nella sede di Milano. Lo stesso dipendente non si presentava nella nuova sede di lavoro adducendo un trasferimento ritorsivo da parte del datore  per aver rifiutato di accettare una proposta di riduzione di inquadramento e di retribuzione e,  pertanto veniva licenziato per giusta causa. La legge non impone forme particolari per la comunicazione del trasferimento, salvo diversa previsione del CCNL applicato al rapporto di lavoro, e non prevede neppure un obbligo di preavviso, che però può essere stabilito sempre dal contratto collettivo di riferimento. Nella comunicazione di trasferimento possono non essere indicati i motivi posti alla base della disposizione datoriale, ma dovranno essere formalmente comunicati laddove il lavoratore ne faccia espressa richiesta.
Come detto, il trasferimento del lavoratore è legittimo laddove dipenda da “comprovate ragioni tecniche, organizzative o produttive” così come disposto dall’art. 2103 c.c.
È altrettanto legittimo il trasferimento del dipendente dovuto ad un accordo tra datore di lavoro e lavoratore, definito trasferimento consensuale.
Infine, è altresì legittimo il trasferimento del lavoratore disposto sulla base della richiesta avanzata direttamente dal lavoratore stesso.

Di converso, è certamente illegittimo il trasferimento del lavoratore disposto dal datore di lavoro in assenza delle “comprovate ragioni tecniche, organizzative o produttive”. Sul punto l’onere della prova spetta al datore di lavoro, che dovrà dimostrare la presenza di ragioni oggettive, inerenti la miglior organizzazione tecnico produttiva dell’azienda e/o la miglior dislocazione del personale, alla base del trasferimento.
È altresì illegittimo il trasferimento operato in violazione delle norme di salvaguardia del posto di lavoro, come ad esempio nel caso di:

  • Disabili gravi;
  • Lavoratori che assistono persone con disabilità grave, e che godono dei permessi ex L. 104/92;
  • Lavoratrici madri, fino al compimento dell’anno di età del bambino.

Tali divieti, però, esigono un bilanciamento con gli interessi imprenditoriali del datore di lavoro che può disporre il trasferimento laddove vi siano ragioni tecniche, organizzative e produttive che non permettano la prosecuzione del rapporto di lavoro nella sede di provenienza.
È nullo il trasferimento disposto per motivi discriminatori o ritorsivi.
Infine, il trasferimento del dirigente sindacale aziendale può essere disposto unicamente previo nulla osta delle associazioni sindacali di appartenenza, ciò per il periodo di durata della carica e fino alla fine dell’anno successivo in cui questa è cessata.

La legge vieta il trasferimento per motivi disciplinari. Pertanto, anche a seguito di un comportamento disciplinarmente rilevante, un inadempimento contrattuale o una violazione posta in essere dal lavoratore, il datore di lavoro non potrà disporre il trasferimento quale sanzione. Differente è l’ipotesi di trasferimento del lavoratore per incompatibilità ambientale: il trasferimento è legittimo qualora vi sia un’incompatibilità (c.d. ambientale) del lavoratore con gli altri colleghi, considerando il provvedimento giustificato da assetti organizzativi e non da motivi disciplinari. Per incompatibilità ambientale si intende una complessità di rapporti tra colleghi che crea un ambiente disfunzionale all’interno dell’azienda.

Il trasferimento deve essere impugnato a pena di decadenza entro 60 giorni dalla sua comunicazione. Successivamente, laddove non intervenga un accordo stragiudiziale, il lavoratore avrà tempo 180 giorni dall’impugnativa per depositare il ricorso in tribunale. Qualora vi sia il pericolo di un pregiudizio imminente ed irreparabile per i beni fondamentali, quali i rapporti familiari o sociali o la salute, può essere richiesto un provvedimento d’urgenza al Tribunale competente ex art 700 c.p.c. che sospenda l’efficacia del trasferimento illegittimo. Il lavoratore, in autotutela, laddove ritenga nullo o illegittimo il trasferimento subito, può rifiutare il trasferimento continuando di fatto ad offrire la prestazione nell’unità produttiva a cui era adibito. Questo comportamento ha, però, un profilo di rischio laddove il datore di lavoro decida di disporre il licenziamento per rifiuto al trasferimento operato dal lavoratore. In tal caso il lavoratore dovrà impugnare il licenziamento ed agire avanti al Giudice per veder accertare sia l’illegittimità del trasferimento che del successivo licenziamento.

in caso di giudizio, il Giudice è tenuto a limitarsi ad accertare la corrispondenza tra il provvedimento datoriale e le esigenze aziendali che ne hanno giustificato la disposizione ossia dovrà verificare la presenza del nesso di causalità tra esigenze tecnico- organizzative o produttive e il provvedimento di trasferimento. Il Giudice non potrà in alcun modo sindacare la scelta aziendale, modificandola o fornendo un proprio giudizio sulla ragionevolezza della scelta operata.
In caso di trasferimento illegittimo il lavoratore avrà diritto a chiedere:

  • La riammissione in servizio presso l’originaria sede di lavoro e nelle mansioni già svolte;
  • Il risarcimento del danno (in questo secondo caso l’onere della prova circa i danni subiti spetta al lavoratore).

RISOLUZIONE SECONDO NORMA

Come abbiamo avuto modo di delineare nel corso dell’approfondimento sul piano probatorio, l’onere di dimostrare la ritorsività del licenziamento ricade sul lavoratore, in base alla regola generale di cui all’articolo 2697, cod. civ., e può essere assolto anche mediante presunzioni.

L’accertata ritorsività del licenziamento determina la nullità del recesso intimato e il riconoscimento, a prescindere dalle dimensioni occupazionali aziendali, della più ampia e massima tutela (ossia ripristinatoria del rapporto e risarcitoria) di cui all’articolo 18, comma 1 e 2, L. 300/1970 (per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, c.d. vecchi assunti), e di cui all’articolo 2 D.Lgs. 23/2015 (per i lavoratori assunti a far data dal 7 marzo 2015, c.d. nuovi assunti).

Nello specifico, il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1345, cod. civ. (secondo il disposto di cui all’articolo 18, comma 1, L. 300/1970, ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, secondo il disposto dell’articolo 2, D.Lgs. 23/2015), ordina al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro (fatta salva la facoltà per il lavoratore di optare per la relativa indennità sostitutiva pari a 15 mensilità della retribuzione globale di fatto per i c.d. vecchi assunti ovvero dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr per i c.d. nuovi assunti, non assoggettata a contribuzione), e condanna, inoltre, il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria (anche questa commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto per i c.d. vecchi assunti o all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr per i c.d. nuovi assunti) maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione – in misura comunque non inferiore a 5 mensilità -, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché al versamento dei relativi contributi previdenziali e assistenziali. Nella vicenda in oggetto è stato specificato che la contestata assenza ingiustificata su cui si è fondato il successivo licenziamento per giusta causa non poteva essere qualificata come tale, in quanto dovuta a un legittimo esercizio del potere di autotutela contrattuale esercitato dal lavoratore ai sensi dell’articolo 1460, cod. civ.. Il rifiuto di ottemperare all’ordine datoriale di trasferimento ritenuto illegittimo è stato, infatti, ricondotto, in linea con il consolidato orientamento della Cassazione, all’eccezione di inadempimento di una delle parti del contratto a prestazioni corrispettive di cui al comma 2 della predetta norma.

La ritorsività quindi  non si  è esaurita col disposto trasferimento, essendo il licenziamento a esso sostanzialmente collegato e, quindi, ugualmente viziato dal medesimo intento illecito, e per questo nullo.
La ritorsività del trasferimento è considerato dunque l’antecedente sia fattuale che giuridico del successivo evento (l’assenza ingiustificata) che ha portato alla risoluzione del rapporto di lavoro e, per via di detto collegamento, ha ritenuto il licenziamento viziato dal medesimo intento illecito.

RISOLUZIONE CASO PRATICO

Nella vicenda in oggetto dunque la Corte territoriale ha dichiarato il licenziamento nullo, con conseguente riconoscimento della c.d. tutela reale piena di cui all’articolo 18, comma 1, L. 300/1970, ossia la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro in precedenza occupato, con l’ulteriore condanna per il datore di lavoro al pagamento dell’indennità risarcitoria pari a tutte le mensilità globali di fatto dalla data del licenziamento a quella dell’effettiva reintegra e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

La Suprema Corte, condividendo le conclusioni alle quali è pervenuta la Corte d’Appello, ha, in primis, ribadito che:

“per accogliere la domanda di accertamento della nullità del licenziamento in quanto fondato su motivo illecito, occorre che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso, dovendosi escludere la necessità di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento.
Il giudice di legittimità ha, poi, ribadito che, in base alla regola generale di cui all’articolo 2697, cod. civ., l’onere della prova della ritorsività del licenziamento ricade sul lavoratore, ma che, stante la gravosità, può essere assolto anche mediante presunzioni, come di fatto avvenuto nel caso di specie.

Da ultimo, la Suprema Corte ha ricordato che l’apprezzamento di tali elementi presuntivi e l’accertamento di fatto del carattere ritorsivo del licenziamento sono devoluti al giudice di merito e, pertanto, insuscettibili di riesame da parte del giudice di legittimità.

Sulla base di tali principi gli Ermellini hanno, quindi, respinto il ricorso del datore di lavoro, confermando la pronuncia della Corte di merito.