Diritto di sciopero: limiti, modalità di esercizio e tutele
Nel presente contributo analizzeremo i limiti e le tutele applicabili al diritto di sciopero alla luce della recente sentenza della CEDU in riferimento al blocco stradale operato in Belgio dagli attivisti per il clima: ne analizzeremo la legittimità e i limiti tra interpretazione e legge.
Lo sciopero come diritto: natura e limiti
Lo sciopero è la più caratteristica forma di “autotutela” degli interessi collettivi dei lavoratori subordinati: esso consiste, infatti, nel rifiuto da parte di questi ultimi di adempiere l’obbligazione lavorativa, al fine di costringere la controparte a concedere migliori condizioni economiche o normative di lavoro.
Nell’ordinamento attuale lo sciopero è elevato al rango di diritto: esso, cioè, non solo non è considerato un reato, ma nemmeno un inadempimento del contratto.
In altre parole, i lavoratori subordinati hanno il diritto di astenersi dalla prestazione lavorativa quando lo ritengano necessario per tutelare i propri interessi collettivi, perdendo naturalmente il diritto alla retribuzione, ma senza subire nessuna delle conseguenze tipiche dell’inadempimento contrattuale.
Si tratta, poi, di un diritto garantito dalla costituzione, la quale stabilisce che “il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano” (art 40).
In realtà tali leggi – se si eccettua quella sullo sciopero nei servizi essenziali – non sono state mai emanate: ma questo non implica affatto che il diritto di sciopero non sia garantito; al contrario, implica che il diritto di sciopero gode di tutela incondizionata anche nei confronti del legislatore; e che i soli limiti che esso incontra sono quelli desumibili dal necessario rispetto di altri diritti, anch’essi di rango costituzionale, con i quali il diritto di sciopero deve essere contemperato (c.d. “limiti esterni”).
L’unico caso in cui la legge è intervenuta a precisare i limiti al diritto di sciopero, in attuazione del precetto costituzionale, è quello dello sciopero nei servizi essenziali, disciplinato dalla legge 146/90.
L’intervento della legge n. 146/1990 si ispira all’esigenza di limitare il diritto di sciopero al fine di contemperarlo con altri diritti di pari rango costituzionale, quali i diritti della persona alla vita, alla salute, alla libertà ed alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione ed alla libertà di comunicazione (artt. 2-13-16-32-33-34-38 Cost.).
Proprio per tale ragione, il legislatore ha operato una elencazione meramente esemplificativa dei servizi essenziali (si citano ad esempio, i servizi della sanità, dell’igiene pubblica e della protezione civile, i trasporti pubblici urbani ed extra urbani autoferrotranviari, ferroviari, aerei, aeroportuali, marittimi limitatamente al collegamento con le isole, le poste, le telecomunicazioni e l’informazione radiotelevisiva) indipendentemente dalla circostanza di essere svolti da lavoratori del settore pubblico e privato, nella quale figura di recente anche “l’apertura al pubblico regolamentata di musei e altri istituti e luoghi della cultura” (art. 1, comma 2, lett. a, legge n. 146/1990 come modificato dal d.l. n. 146/2015).
La caratteristica più originale della legge n. 146/1990 è quella attinente allo strumento adottato per realizzare il contemperamento del diritto di sciopero con i diritti della persona costituzionalmente tutelati: tale strumento è individuato nella contrattazione collettiva.
Infatti è ai contratti collettivi che la legge affida il compito di individuare, nell’ambito dei servizi destinati alla tutela dei diritti sopra elencati, le prestazioni da considerarsi indispensabili perché quella tutela non sia frustrata a causa di uno sciopero, e le modalità per garantire l’effettuazione di dette prestazioni indispensabili.
Anche in assenza di tali fonti negoziali, tuttavia, operano alcuni limiti imposti direttamente dalla legge: si tratta dell’obbligo, per i soggetti collettivi che proclamano lo sciopero, di comunicare la durata, le modalità attuative e le motivazioni dello sciopero, con un preavviso minimo di 10 giorni.
La comunicazione va indirizzata, per iscritto, alla competente autorità (ufficio della Presidenza del Consiglio dei Ministri o Prefettura, a seconda della rilevanza geografica del conflitto), oltre che alle imprese o amministrazioni erogatrici del servizio, le quali devono a loro volta informare l’utenza almeno 5 giorni prima dell’effettuazione dello sciopero.
La legge riconosce anche alla pubblica autorità (Prefetto o Presidente del Consiglio dei Ministri) il potere di “precettare” i lavoratori (sia subordinati che autonomi), quando ci sia fondato pericolo che uno sciopero pregiudichi i diritti della persona costituzionalmente garantiti: in tal caso l’autorità, dopo avere inutilmente invitato le parti a desistere dai comportamenti pregiudizievoli, e avere esperito un tentativo di conciliazione, emana un’ordinanza motivata, almeno 48 ore prima dello sciopero, con la quale obbliga le imprese ed i lavoratori interessati a garantire le prestazioni indispensabili, tenendo conto delle prescrizioni contenute nell’eventuale proposta formulata dalla commissione di garanzia.
Il diritto di sciopero non giustifica il blocco stradale improvviso e prolungato: il caso belga.
In Belgio, il diritto di sciopero non è regolato dalla legge, ma si è consolidato attraverso la giurisprudenza.
Nel 1981, la Corte suprema belga ha stabilito che il lavoratore, in caso di sciopero, ha il diritto di non eseguire il proprio lavoro come da contratto.
Quindi, partecipare ad uno sciopero non è di per sé un atto illegale.
Lo sciopero è riconosciuto come diritto individuale, il che vuol dire che il lavoratore può aderire ad uno sciopero anche se non è indetto dai sindacati.
Il lavoratore in sciopero esercita la propria libertà di associazione e tale azione è perciò considerata una sospensione giustificata del contratto di lavoro.
Il diritto di sciopero è riconosciuto come diritto fondamentale e la legge ne regola le conseguenze.
L’esercizio del diritto di sciopero e riunione non può portare a un blocco stradale improvviso, di diverse ore, in grado di provocare tensioni e disagi superiori rispetto a quelli normalmente accettabili.
Non è infatti in contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo la sentenza di condanna emessa dai giudici nazionali che punisce i manifestanti responsabili, in modo intenzionale, di un blocco stradale.
È la Corte europea dei diritti dell’uomo a stabilirlo con la sentenza depositata il 17 gennaio scorso nella causa Bodson e altri contro Belgio, destinata a incidere sulla corretta interpretazione delle norme convenzionali in altri casi simili. Strasburgo ha respinto il ricorso dei manifestanti e dato ragione allo Stato in causa, affermando il diritto dello Stato di intervenire nel caso di blocchi stradali, sempre più diffusi, che non rientrano nella libertà di riunione protetta dall’articolo 11 della Convenzione.
Nel corso di uno sciopero generale, era stato impedito, in modo intenzionale, l’accesso all’imbocco autostradale.
L’iniziativa aveva condotto a un blocco nella circolazione di quasi cinque ore con ingorghi e code lunghissime in autostrada.
Di qui l’azione penale nei confronti di alcuni scioperanti e la condanna a pene da 15 giorni a un mese di reclusione e multe.
È stato precisato che ogni manifestazione in un luogo pubblico è suscettibile di provocare disagi nella vita quotidiana e in particolare al traffico stradale che ciò non può portare a un’ingerenza nel diritto alla libertà di manifestazione perché le autorità pubbliche devono mostrare un certo grado di tolleranza, la Corte ha stabilito, però, che i disagi non possono raggiungere un’entità tale da arrivare allo sconvolgimento della vita quotidiana.
Nei casi in cui i manifestanti mettono in atto comportamenti che provocano disagi nella quotidianità di gran lunga superiori rispetto a quelli comunemente accettabili, gli Stati hanno un ampio margine di apprezzamento nella scelta delle misure da adottare, amministrative o anche penali.
La Corte ha valutato che il blocco stradale era avvenuto senza che fosse stata preliminarmente comunicata l’interruzione e senza alcuna autorizzazione, con il solo fine di bloccare un’attività – quella di circolazione – di tutti i cittadini, senza alcun collegamento con l’obiettivo della protesta.
Non solo. La Corte osserva che i manifestanti avrebbero potuto scegliere altre forme di protesta pacifica per fare valere le proprie rivendicazioni.
Poco importa, inoltre, che l’iniziativa non fosse stata attivata dai ricorrenti perché questi ultimi avevano aderito ed erano consapevoli delle conseguenze significative che avrebbero causato, che andavano ben oltre una semplice situazione di disagio.
Le autorità nazionali, quindi, hanno agito in linea con la Convenzione europea perché non hanno condannato i ricorrenti per l’esercizio del diritto di sciopero o per aver espresso le proprie opinioni, ma per aver bloccato intenzionalmente la circolazione stradale.
L’ingerenza dello Stato – conclude la Corte – è stata così proporzionata e non si è verificata una violazione della Convenzione.