Errate informazioni all’ITL: quali conseguenze?


Tizio, direttore dell’ipermercato sito in località Omega, aveva fornito informazioni scientemente errate agli ispettori sullo svolgimento delle attività all’interno dell’ipermercato in oggetto.


Tizio, assistito dall’all’avvocato Sempronio, chiedeva se fossero ravvisabili responsabilità per le sue omesse/errate dichiarazioni.

CONTESTO NORMATIVO


Come noto, la questione oggetto della presente trattazione trova una sua specifica disciplina nell’articolo 4, comma 7, L. 628/1961, nel testo novellato dall’articolo 28, D.Lgs. 758/1994.

La norma in esame prevede testualmente: “Coloro che, legalmente richiesti dall’Ispettorato di fornire notizie a norma del presente articolo, non le forniscano o le diano scientemente errate od incomplete, sono puniti con l’arresto fino a due mesi o con l’ammenda fino a lire un milione (516
euro, ndA).

Il punto principale della questione è capire se la fattispecie in esame, articolo 4, comma 7, L. 628/1961, possa o meno essere sussunta nell’ambito delle “leggi in materia di lavoro e legislazione sociale”. La (allora) Direzione regionale del lavoro di Milano, con nota n. 15230/2005, ha ritenuto che tale
illecito sia da ricondurre nell’alveo applicativo dell’articolo 15, D.Lgs. 124/2004, donde si renderebbe necessaria l’adozione della prescrizione obbligatoria. Il Ministero del lavoro, con successivo intervento, nota n. 15525/2011, ha avuto modo di precisare che non sussistono motivi ostativi per l’applicabilità della prescrizione obbligatoria anche con riferimento alle condotte descritte dall’articolo 4, comma 7, L. 628/1961, norma che costituisce normativa comunque inerente alla materia del lavoro e della legislazione sociale.


Tuttavia, il Ministero, differentemente dalla posizione espressa dalla DRL di Milano, ha precisato
che l’istituto della prescrizione obbligatoria non può trovare accoglimento nei casi in cui il datore di
lavoro riscontra la richiesta del personale ispettivo del Ministero del lavoro, fornendo notizie
consapevolmente (“scientemente” secondo la lettera della legge) errate.


Pertanto, solo in tale ultimo caso, va effettuata la segnalazione direttamente alla Procura della Repubblica, tenuto conto, secondo l’interpretazione del Dicastero, che non può non rilevare la consapevole e volontaria scelta di contravvenire alle richieste formulate, ostacolandole con partecipazione psicologica di tipo doloso. Resta il dubbio in ordine all’interpretazione fornita dal Ministero del lavoro con la richiamata circolare: se infatti si rende applicabile l’istituto della prescrizione obbligatoria, quale condizione di
procedibilità dell’azione penale non si comprende il motivo della preclusione della prescrizione nell’ipotesi commissiva, tenuto conto che lo scopo della norma è la conformazione del trasgressore alla prescrizione.


IMPLICAZIONI


Nella questione oggetto di approfondimento, un direttore di un punto vendita, aveva fornito notizie e informazioni scientemente errate e incomplete sullo svolgimento dell’attività, all’interno dell’esercizio commerciale, di 2 ex dipendenti.
In materia di configurazione del reato previsto dall’articolo 4, comma 7, L. 628/1961 è di fondamentale importanza precisare che il reato può assumere una duplice declinazione: omissiva e
commissiva. In tale seconda ipotesi, è richiesto il dolo intenzionale, consistente nella volontà specifica di fornire notizie e/o informazioni, intendendosi per tali anche la messa a disposizione di documentazione.


L’ipotesi omissiva configura un reato permanente, punibile in presenza della (sola) colpa; il reato, nella sua duplice declinazione, non è configurabile quando l’Ispettorato agisce quale delegato della Procura della Repubblica o in via autonoma quale autorità di polizia giudiziaria in indagini penali.

La richiesta dell’Ispettorato può essere inoltre effettuata anche con raccomandata con avviso di ricevimento ritorno, contenente la puntuale indicazione, non la generica richiesta, della
documentazione e/o delle informazioni richieste e non è possibile ritenere perfezionata la notifica della richiesta da parte dell’Ispettorato con lo spirare del termine di compiuta giacenza,
necessitando che la stessa pervenga all’indirizzo della (sola) società, anche ai fini del compimento della presunzione di conoscenza ex articolo 1335, cod. civ; inoltre non è neppure richiesto che l’ispettore, non avendo ricevuto riscontro alla richiesta, proceda a una nuova richiesta (anche se il
Ministero del lavoro, con la circolare n. 41/2010, ne prevede la “facoltà”).


RISOLUZIONE SECONDO NORMA


Come abbiamo avuto modo di delineare nel corso dell’approfondimento, dunque Tizio, era accusato
di aver fornito informazioni errate e incomplete all’Ispettorato del Lavoro, comportamento considerato doloso in quanto l’accusa sosteneva che egli avesse agito “scientemente”.

L’elemento doloso è essenziale per configurare il reato previsto dall’art. 4, comma 7, della legge n. 628 del 1961, il quale punisce chi fornisce informazioni non veritiere in risposta a richieste ufficiali delle autorità di controllo.

L’accusa sosteneva che Tizio, nella sua posizione di direttore, avesse deliberatamente omesso o falsificato informazioni sul personale della società in particolare in riferimento a due dipendenti che avevano prestato servizio presso il punto vendita da lui diretto.

Nello specifico, Tizio avrebbe comunicato agli ispettori INPS che solo un lavoratore fosse effettivamente operativo nel punto vendita, nonostante le evidenze contrarie.

Questo comportamento, ritenuto “reticente” dall’accusa, è stato interpretato come una volontaria omessa comunicazione di fatti che erano rilevanti per l’indagine ispettiva in corso.

L’analisi di una responsabilità in capo a Tizio atterebbe dunque alla sua negligenza grave piuttosto che a una reale volontà dolosa in quanto avrebbe dovuto verificare accuratamente i dati presso l’ufficio personale dell’azienda prima di rispondere, concludendo che la sua mancata diligenza costituisse sufficiente base per una condanna.


La Corte di Cassazione chiamata ad esprimersi sun un caso simile ha evidenziato i seguenti punti:


• Differenza tra Dolo e Colpa: secondo la Cassazione, la condotta dolosa è un elemento imprescindibile del reato contestato. Se l’accusa originaria riteneva che il direttore avesse
agito consapevolmente per fornire informazioni false, non era sufficiente attribuirgli grave negligenza, per fondare la responsabilità penale. In assenza di prova del dolo, il reato non
poteva essere confermato;
• Contraddizione Logica: la Corte ha evidenziato un’incoerenza nella sentenza di primo grado, che oscillava tra la qualificazione del comportamento del direttore come “reticente” (intenzionale) e l’attribuzione di una condotta semplicemente “negligente” (non intenzionale). Questo approccio contraddittorio rendeva incoerente la motivazione della sentenza, non chiarendo se si trattasse di una volontà di occultare informazioni o di una
semplice mancanza di diligenza;
• Principio di Coerenza tra Accusa e Sentenza: la Cassazione ha sottolineato che, per rispetto del principio di coerenza, il Tribunale avrebbe dovuto qualificare la condotta secondo
l’accusa di dolo oppure, se intendeva ritenere che l’imputato avesse agito per negligenza, avrebbe dovuto procedere all’assoluzione, poiché il reato non era configurabile.

RISOLUZIONE CASO PRATICO


Nella vicenda in oggetto dunque, la questione dibattuta ruota attorno alla qualificazione della condotta come dolosa o colposa, elemento che la difesa dell’imputato riteneva centrale nel ricorso promosso in sede di legittimità.

L’imputato sosteneva che, per il tipo di reato contestato, fosse richiesto il dolo intenzionale, considerando che l’addebito era formulato in termini di informazioni “scientemente” errate.
Tuttavia, il giudice di primo grado aveva interpretato la condotta come negligenza grave, considerando irrilevante il dolo intenzionale e assimilando colpa e dolo senza fare una chiara distinzione tra le due modalità di condotta. Secondo la difesa, questa interpretazione avrebbe dovuto portare all’assoluzione dell’imputato, poiché mancava il requisito fondamentale dell’intenzionalità richiesto dall’accusa.

La Corte di Cassazione, nel valutare il ricorso, ha ritenuto fondato il motivo, osservando che la sentenza di primo grado aveva erroneamente considerato la condotta dell’imputato come colposa, quando invece la contestazione era basata su un’azione dolosa. Per la Cassazione, ossia, non è sufficiente, ai fini dell’affermazione di responsabilità, un atteggiamento di negligenza, seppur grave, nel recupero delle notizie da fornire all’organo ispettivo richiedente, quando la contestazione formulata dal pubblico ministero presupponga che le notizie
siano state invece fornite e che lo siano state, “scientemente”, in forma errata ed incompleta. La Terza Sezione penale della Cassazione ha quindi annullato la sentenza e disposto il rinvio a un nuovo giudice, affinché proceda a un riesame che tenga conto della necessità di una qualificazione corretta dell’elemento soggettivo di dolo intenzionale, così come specificato nel capo d’imputazione.