Licenziamento illegittimo ed esclusione della reintegra in caso di percezione della pensione di vecchiaia

La società Italnord s.r.l procedeva al licenziamento  del dipendente Sempronio per superamento del periodo di comporto. Nelle more del giudizio per la dichiarazione di illegittimità del licenziamento, interveniva domanda di pensionamento di vecchiaia dello stesso dipendente seguita da collocamento in quiescenza con percezione del relativo trattamento pensionistico.Il rappresentante legale della società si rivolgeva dunque alla corte di legittimità al fine di far accertare che tale  causa  fosse di per sé idonea a risolvere il rapporto di lavoro. L’impossibilità di una pronuncia giudiziaria reintegratoria per sopravvenuta causa non imputabile al datore di lavoro implica infatti il venir meno anche del conseguente diritto alla corrispondente indennità sostitutiva.

CONTESTO NORMATIVO

Come noto, nel nostro ordinamento la reintegrazione nel posto di lavoro costituisce la massima forma di tutela riconosciuta al lavoratore in caso di illegittimo licenziamento e consiste nell’obbligo, per il datore di lavoro, di ripristino del rapporto, mediante la riammissione in servizio del dipendente nel medesimo posto da quest’ultimo occupato al momento del licenziamento.

Tale principio di stabilità del rapporto è stato introdotto nel nostro ordinamento dall’articolo 18 st.Lav., e fino al 2012 era applicabile a tutte le ipotesi di licenziamento illegittimo disposto da un datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, c.d. di grandi dimensioni, ossia avente i requisiti dimensionali previsti dalla medesima disposizione normativa.

Era, quindi, prevista un’unica tutela (c.d. tutela reale), consistente nella reintegrazione del lavoratore – con diritto di opzione per la relativa indennità sostitutiva pari a 15 mensilità di retribuzione globale di fatto – e nel risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni globali di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello di effettiva reintegra, e comunque non inferiore al minimo di 5 mensilità, e al versamento della relativa contribuzione assistenziale e previdenziale.

Con la L. 92/2012 (Riforma Fornero) il Legislatore ha ridimensionato il summenzionato principio di stabilità del rapporto previsto dall’articolo 18, St. Lav., limitando l’ambito di applicazione della reintegra.

Attualmente la norma prevede, infatti, a seconda della gravità del vizio riscontrato, 4 diversi regimi di tutela, solamente 2 dei quali contemplano la reintegrazione del dipendente nel suo posto di lavoro.

La tutela inizialmente riconosciuta al lavoratore in caso di illegittimo licenziamento è stata, poi, ulteriormente modificata dall’entrata in vigore del D.Lgs. 23/2015, in materia di “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti” attuativo del c.d. Jobs Act, che ha introdotto un nuovo regime sanzionatorio per le ipotesi di licenziamento illegittimo intimato ai lavoratori assunti a tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del decreto, che andrà nel tempo a sostituire il sistema di tutele previsto dall’articolo 18, St. Lav.. Il Legislatore ha, infatti, stabilito come sanzione principale per l’illegittimo licenziamento il pagamento di un’indennità risarcitoria, riducendo ulteriormente la tutela reintegratoria a poche e residuali ipotesi.

Conseguentemente, e per quanto qui interessa, a oggi, la reintegrazione nel posto di lavoro è riconosciuta:

− a tutti lavoratori, ivi inclusi i dirigenti, assunti a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015 (c.d. vecchi assunti), nei casi di nullità del licenziamento (perché discriminatorio ovvero intimato in concomitanza col matrimonio o in violazione dei divieti previsti dalla normativa a tutela della maternità e della paternità, ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante) o di inefficacia dello stesso (perché intimato oralmente), ai quali si applica l’articolo 18, St. Lav., come modificato dalla L. 92/2012, indipendentemente dai requisiti dimensionali del datore di lavoro. In questi casi il giudice, oltre a disporre la reintegra, condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello di effettiva reintegrazione, che in ogni caso non potrà essere inferiore a 5 mensilità, dedotto l’aliunde perceptum, ossia quanto percepito dal lavoratore nel periodo di estromissione per lo svolgimento di altre attività lavorative, oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali (c.d. tutela reintegratoria piena);

− ai lavoratori assunti a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015 (c.d. vecchi assunti), da datori di lavoro aventi i requisiti dimensionali previsti dall’articolo 18, comma 8, St. Lav., nelle ipotesi di licenziamento in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, nelle ipotesi di licenziamento intimato per inidoneità fisica o psichica del lavoratore, ovvero durante il periodo di comporto in violazione dell’articolo 2110, comma 2, cod. civ., nonché nei casi di insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. In tutti questi casi il giudice, oltre a disporre la reintegra, condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello di effettiva reintegrazione, e, in ogni caso, sino a un massimo di 12 mensilità (non vi è un importo minimo come, invece, previsto nei casi di cui al punto precedente), dedotto l’aliunde perceptum nonché quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali maggiorati degli interessi (c.d. tutela reintegratoria attenuata);

− a tutti i lavoratori assunti a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015 (c.d. nuovi assunti), indipendentemente dai requisiti dimensionali del datore di lavoro, ai quali si applica il D.Lgs. 23/2015, nei casi di nullità del licenziamento (perché discriminatorio ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge), nei casi di inefficacia del licenziamento (perché intimato in forma orale) e nelle ipotesi in cui il giudice accerta il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore. In questi casi il giudice, oltre a disporre la reintegra, condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr (e non alla globale di fatto come previsto dall’articolo 18, St. Lav.), dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, che in ogni caso non potrà essere inferiore a 5 mensilità, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali;

− ai lavoratori assunti a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015 (c.d. nuovi assunti), da datori di lavoro aventi i requisiti dimensionali previsti dall’articolo 18, comma 8, St. Lav., esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento. In questi casi il giudice, oltre a disporre la reintegra, condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto (e non alla globale di fatto come previsto dall’articolo 18, St. Lav.), dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, e in ogni caso in misura non superiore a 12 mensilità (non vi è un importo minimo, come, invece, previsto nei casi di cui al punto precedente), dedotto l’aliunde perceptum, nonché quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

IMPLICAZIONI

Nella  questione oggetto di approfondimento, la società Italnord s.r.l procedeva al licenziamento  del dipendente Sempronio per superamento del periodo di comporto. Nelle more del giudizio per la dichiarazione di illegittimità del licenziamento, interveniva domanda di pensionamento di vecchiaia dello stesso dipendente seguita da collocamento in quiescenza con percezione del relativo trattamento pensionistico. In tutte le summenzionate ipotesi in cui il giudice dispone la reintegrazione del dipendente nel suo posto di lavoro, il lavoratore ha la facoltà di esercitare il c.d. diritto di opzione.

Nello specifico, fermo restando il diritto al risarcimento del danno per l’illegittimo licenziamento – così come quantificato di volta in volta dal Legislatore a seconda della disciplina normativa applicabile e del vizio rilevato – il lavoratore può chiedere al datore di lavoro, entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza o – se anteriore – dall’invito del datore a riprendere servizio, il pagamento dell’indennità sostitutiva della reintegra pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, nel caso di applicazione dell’articolo 18, St. Lav., o dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr, in caso di applicazione del D.Lgs. 23/2015. Detta indennità sostitutiva non è soggetta a contribuzione previdenziale e la relativa richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro. La Corte d’Appello annullava il licenziamento intimato al lavoratore, in quanto illegittimo per il mancato superamento del periodo di comporto, respingendo, però, la domanda di reintegrazione del lavoratore ed escludendo, conseguentemente, anche l’esercizio del diritto di opzione per le 15 mensilità di indennità sostitutiva della reintegra. Al contempo, la Corte riduceva il risarcimento del danno dovuto dal datore di lavoro alla data del collocamento in quiescenza avvenuto, su domanda del lavoratore, pochi mesi dopo (l’illegittimo) licenziamento. In sostanza, la Corte d’Appello, ritenendo risolto il rapporto di lavoro per altra causa antecedente alla declaratoria di illegittimità del licenziamento (ossia il collocamento in quiescenza e la percezione della pensione di vecchiaia), aveva conseguentemente escluso la reintegra in un posto di lavoro ormai dismesso per scelta del lavoratore e, quindi, anche la possibilità di riconoscere il pagamento della relativa indennità sostitutiva, mancandone il relativo presupposto (l’ordine di reintegrazione).

RISOLUZIONE SECONDO NORMA

Come abbiamo avuto modo di delineare nel corso dell’approfondimento l’onere del datore di lavoro di reintegrare il dipendente, riammettendolo nel medesimo posto occupato prima del licenziamento, va rivisto in base all’effettiva possibilità di ripristino della situazione ex ante, laddove questa sia venuta meno per oggettive modificazioni intervenute nel frattempo.

Gli Ermellini hanno, infatti, sottolineato come la dichiarazione di illegittimità del licenziamento faccia, in sostanza, sopravvivere il rapporto di lavoro e, conseguentemente, come su tale rapporto possano avere effetto estintivo diverse cause sopravvenute, quali, ad esempio, le dimissioni, la morte del lavoratore o un nuovo licenziamento non tempestivamente impugnato.

Nello specifico, secondo la Cassazione, l’ordine di reintegra deve ritenersi precluso

“ogniqualvolta sopravvengano, dopo l’impugnativa di licenziamento, per fatti non imputabili al datore di lavoro, ragioni di carattere oggettivo (ad esempio: morte del lavoratore; cessazione dell’attività imprenditoriale per il venire meno del complesso aziendale, ecc.) o ragioni meramente giuridiche (ad es.: conseguimento del diritto a pensione allorquando non risulti provato che il lavoratore versi nelle condizioni previste dalla legge per l’esercizio del diritto di opzione; soppressione a seguito di procedura di mobilità del posto a cui dovrebbe essere reintegrato il lavoratore licenziato, sempre che non sia possibile una sua diversa utilizzazione), che ostano all’accoglimento della chiesta reintegra, dovendo in tali casi il giudice limitarsi alla sola condanna risarcitoria sino al momento della sopravvenuta causa estintiva del rapporto. di lavoro, essendosi il rapporto lavorativo ormai definitivamente estinto per effetto della mancata impugnativa del secondo provvedimento di recesso.

E, ancora, sulla base del medesimo principio, la Cassazione ha escluso la reintegra anche nel caso di sopraggiunta cessazione totale dell’attività aziendale nelle more del giudizio per la dichiarazione di illegittimità del licenziamento.

Anche in tal caso il giudice deve limitarsi ad accogliere la domanda di risarcimento del danno limitatamente al periodo compreso tra la data del licenziamento dichiarato illegittimo e la sopravvenuta causa di risoluzione del rapporto (la cessazione totale dell’attività aziendale).

Diverso, invece, è il caso delle società poste in liquidazione, laddove l’attività non sia definitivamente cessata e non vi sia stato l’azzeramento effettivo del personale (come, ad esempio, nelle ipotesi di fallimento con esercizio provvisorio dell’attività) per le quali, invece, l’ordine di reintegrazione può essere disposto.

L’impossibilità di una pronuncia giudiziaria reintegratoria, come nei casi sopra richiamati, comporta il venir meno anche del diritto del lavoratore alla relativa indennità sostitutiva.

Ciò in quanto l’obbligazione del datore di lavoro al pagamento dell’indennità sostitutiva della reintegra, pari alle 15 mensilità, consiste in un’obbligazione a facoltà alternativa, avente a oggetto la reintegra nel posto di lavoro, la cui attualità è presupposto necessario per l’esercizio del diritto di opzione da parte del lavoratore per la corrispondente indennità sostitutiva. Conseguentemente, in tutti i casi in cui la reintegra sia divenuta impossibile per causa non imputabile al datore di lavoro ai sensi dell’articolo 1256, cod. civ., non è dovuta neppure la relativa indennità sostitutiva.

RISOLUZIONE CASO PRATICO

Alla luce delle premesse normative e delle considerazioni esposte in precedenza il raggiungimento dell’età pensionabile non determina, di per sé, l’automatica estinzione del rapporto di lavoro. La Cassazione ha, infatti, in più occasioni ribadito che: “il compimento dell’età pensionabile o il raggiungimento dei requisiti per l’attribuzione del diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia da parte del lavoratore, determinano soltanto il venir meno del regime di stabilità del rapporto (con conseguente recedibilità “ad nutum”) ma non anche l’automatica estinzione dello stesso, che, in assenza di un valido atto risolutivo del datore di lavoro, è destinato a proseguire, con diritto del lavoratore alla retribuzione, anche successivamente al compimento del sessantacinquesimo anno di età.A tal riguardo la Suprema Corte ha sottolineato, richiamando le pronunce della Corte Costituzionale espressasi in tal senso, che in una società come quella attuale, caratterizzata da disoccupazione e sottoccupazione, la mancanza di una tutela piena del diritto del lavoro, per difetto di garanzie di stabilità del posto, per quei lavoratori che abbiano già conseguito la pensione di vecchiaia, è ragionevolmente giustificata dal godimento, da parte degli stessi, del trattamento previdenziale. La sola domanda di pensione, quindi, non estingue il rapporto di lavoro sin quando non vi sia un atto, come ad esempio il licenziamento, le dimissioni o – come nel caso di specie – il pensionamento, idoneo a risolverlo. Gli Ermellini hanno evidenziato come i giudici del rinvio, premesso quanto sopra, abbiano, quindi, ritenuto che la domanda di pensione di vecchiaia, unitamente al suo conseguimento, peraltro in un momento antecedente alla proposizione del ricorso giudiziale, costituissero fatti ulteriori idonei a risolvere il rapporto di lavoro per una volontà riconducibile al lavoratore. Per la Corte d’Appello tale comportamento concludente ha prodotto un doppio effetto: da un lato l’estinzione del rapporto di lavoro (per altra causa diversa dal licenziamento impugnato e dichiarato poi illegittimo) e, dall’altro, l’impossibilità concreta della reintegrazione e di riconoscere il pagamento della relativa indennità sostitutiva mancandone il relativo presupposto (l’ordine di reintegra).