La discriminazione di genere – riflessi accertativi

Alcune lavoratrici part-time di un’azienda sanitaria, in primo grado, si erano viste respingere le domande presentate per accertare la nullità degli avvisi e delle graduatorie pubblicate all’esito di selezioni per accedere a progressioni professionali orizzontali. Le lavoratrici pertanto impugnavano gli avvisi e le graduatorie in relazione al lamentato profilo di discriminazione di genere per avere l’ASL computato l’anzianità di servizio con il criterio del riproporzionamento alle ore di servizio prestato. Analizziamo dunque la discriminazione di genere sotto il profilo concettualistico e dei riflessi accertativi.

CONTESTO NORMATIVO

Come noto, per discriminazione di genere si intende, quel fenomeno consistente nel trattare le persone in modo ingiusto o svantaggioso sulla base del loro genere.

Va premesso che la discriminazione di genere è una violazione dei diritti umani fondamentali atteso che essa si scontra con gli universali principi di uguaglianza e di giustizia. Il tema, peraltro, è particolarmente rilevante sotto un profilo sociologico-comportamentale, donde la trattazione aiuta a promuovere la consapevolezza e l’educazione al fine di creare società più inclusive ed equilibrate in cui uomini e donne abbiano le stesse opportunità e i medesimi trattamenti. Tale principio oltre ad essere  tutelato da   norme di diritto internazionale ed europeo riceve una specifica tutela anche dal diritto interno. In  Italia infatti il principio fondante è l’articolo 3 della Costituzione che, in particolare, dopo aver affermato la c.d. “uguaglianza formale”, in ordine alla parità di dignità sociale davanti alla legge (comma 1), affida – al comma 2 – alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli economici e sociali che: “limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Parimenti, l’articolo 51 della Carta fondamentale prevede che: “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”.
Più specificatamente in ambito lavorativo, l’articolo37 Costituzione italiana prevede che: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare ed assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”. Il Testo Unico della maternità (e paternità), attualmente perimetrato nel decreto delegato 151/2001 e successive modificazioni e integrazioni, è l’attuazione di detto baluardo costituzionale. In materia di “adempimento della funzione familiare e di assistenza e protezione al bambino”, deve leggersi la disposizione di cui all’articolo 11 D.Lgs. 66/2003 che prevede l’esonero dall’obbligo di effettuare il lavoro notturno alle seguenti categorie di lavoratori: “a) la lavoratrice madre di un figlio di età inferiore a tre anni o, in alternativa, il lavoratore padre convivente con la stessa; b) la lavoratrice o il lavoratore che sia l’unico genitore affidatario di un figlio convivente di età inferiore a dodici anni; b-bis) la lavoratrice madre adottiva o affidataria di un minore, nei primi tre anni dall’ingresso del minore in famiglia, e comunque non oltre il dodicesimo anno di età o, in alternativa ed alle stesse condizioni, il lavoratore padre adottivo o affidatario convivente con la stessa; c) la lavoratrice o il lavoratore che abbia a proprio carico un soggetto disabile ai sensi della legge 104/92 e successive modificazioni”. I principi costituzionali appena enunciati hanno poi trovato concreta attuazione e declinazione in una serie di disposizioni lavoristiche, prima fra tutte lo Statuto dei Lavoratori, la L. 300/1970, che, all’articolo 15 prevede espressamente: “È nullo qualsiasi patto od atto diretto a: a) subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte; b) licenziare un lavoratore , discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero. Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età, di nazionalità o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali”.
Assume importanza altresì la norma di carattere generale in materia di part-time recata dall’articolo 7 del d.lgs 81/2015 (già contenuta nell’articolo 4 del previgente D.Lgs. 61/2000), in base alla quale “i lavoratori a tempo parziale godono degli stessi diritti, fra tutti quelli di matrice retributiva, rispetto ai lavoratori a tempo pieno.

IMPLICAZIONI

Nella  questione oggetto di approfondimento, alcune lavoratrici part-time di un’azienda sanitaria, in primo grado, si erano viste respingere le domande presentate per accertare la nullità degli avvisi e delle graduatorie pubblicate all’esito di selezioni per accedere a progressioni professionali orizzontali. In tale caso si parla di  c.d. “discriminazione indiretta di genere”. Trattasi di una particolare forma di discriminazione in cui i lavoratori di un determinato sesso siano posti in una posizione particolarmente svantaggiosa in conseguenza di una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento che all’apparenza risulterebbero essere invece neutri.

Si ricorda che per progressione professionale orizzontale si intende quel particolare sistema di avanzamento, riconosciuto all’interno di ciascuna categoria, in base al quale si può ottenere l’attribuzione di uno stipendio più alto a parità di prestazioni lavorative.

Dette progressioni, previste dall’articolo 52 comma 1-bis, D.Lgs. 165/2001, sono riconosciute dalle P.A. sulla base di quanto previsto dai rispettivi contratti collettivi e nei limiti delle risorse disponibili, così come previsto dall’articolo 23 D.Lgs. 150/2009 (c.d. “decreto Brunetta”), mediante procedura selettiva a una quota di dipendenti già in forza sulla base dello sviluppo delle competenze professionali e ai risultati individuali e collettivi rilevati secondo il sistema di valutazione adottato (comma 2). Per quanto qui di interesse, in disparte il censurato criterio di formazione delle graduatorie (per famiglie professionali e non per categorie contrattuali), le lavoratrici impugnavano gli avvisi e le graduatorie in relazione al lamentato profilo di discriminazione di genere per avere l’ASL computato l’anzianità di servizio con il criterio del riproporzionamento alle ore di servizio prestato. Detta domanda, invero, veniva accolta dal giudicante, sotto il diverso profilo di discriminazione dei lavoratori part-time, con ordine all’azienda sanitaria di parificare, ai fini delle predette progressioni, i lavoratori part-time a quelli full-time e adottare le relative determinazioni risultanti, rigettando il profilo discriminatorio di genere.

Al fine di verificare la esistenza di una discriminazione indiretta di genere, nel caso in cui disponga di dati statistici, occorre in primo luogo prendere in considerazione l’insieme dei lavoratori assoggettati alla disposizione di cui si dubita; il miglior metodo di comparazione consiste, poi, nel confrontare tra loro: le proporzioni rispettive di lavoratori che sono e che non sono “colpiti” dall’asserita disparità di trattamento all’interno della manodopera di sesso maschile (rientrante nel campo di applicazione della disposizione) e le medesime proporzioni nell’ambito della mano d’opera femminile Per applicare correttamente il metodo di comparazione il giudice avrebbe dovuto, dunque, individuare, nell’ambito dei destinatari della disposizione, come sopra fissato: in quale percentuale dei lavoratori di sesso maschile vi erano soggetti colpiti (in quanto part time) o non colpiti (in quanto full time) dalla disposizione ed in quale percentuale delle lavoratrici di sesso femminile vi erano dipendenti colpite (part time) o non colpite (full time) dalla disposizione.  All’esito del raffronto tra le rispettive percentuali, l’effetto discriminatorio emergerebbe se i dipendenti part time colpiti dal criterio di selezione fossero costituti in percentuale significativamente prevalente da donne”.

Occorre tuttavia precisare che non può dubitarsi sulla possibilità di ipotizzare in astratto condotte discriminatorie di genere anche in ambienti lavorativi a prevalente connotazione femminile, tuttavia -si rende necessario che la parte che intende avvalersi di tale motivo di nullità prospetti compiutamente, nei termini indicati, i relativi profili in fatto (anche mediante rilevazione statistica).

RISOLUZIONE SECONDO NORMA

Come abbiamo visto nel corso dell’approfondimento la nostra costituzione all’articolo 37 stabilisce che: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”. 

 Da una lettura della normativa sembrerebbe, pertanto, che almeno in Italia nessuna disparità esista. In realtà questa è una pratica molto distante dalla teoria dunque che crea barriere legali che limitano l’accesso delle donne al mondo del lavoro e ristringono la possibilità di arrivare ad una vera equità di genere.

 Ogni giorno, nel mondo del lavoro, le donne subiscono gli effetti della discriminazione di genere. La spiegazione di ciò è dovuta al fatto che purtroppo viviamo in una società prettamente maschilista sia sotto il punto di vista politico che religioso, ragion per cui la donna continua a subire discriminazioni.

 Viviamo, insomma, in una società in cui la disuguaglianza di genere penalizza la posizione della donna in tutti gli ambiti, economico, sociale e politico. L’Italia è all’ottantaduesimo posto per differenze di genere, e le distanze tra uomo e donna continuano ad essere sempre più profonde.

 La Cassazione ha trattato varie volte il tema della discriminazione sui luoghi di lavoro nei confronti delle donne e, con la sentenza n. 14206 del 5 giugno 2013, ha colto l’occasione per rafforzare il principio di uguaglianza espresso dalla legge che fa espresso divieto di trattare i lavoratori in maniera diversa in base al sesso ad esempio nell’affidare incarichi oppure nell’assegnare qualifiche etc.

Non a caso, lo statuto dei lavoratori  legge 20.05.1970 n. 300 , G.U. 27.05.1970, precisa che: “all’articolo 15 “è nullo qualsiasi patto od atto diretto a: a) subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte; b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero. Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica o religiosa.”

Orbene, nonostante, la normativa preveda la tutela dei diritti delle donne al pari di quelle degli uomini, le discriminazioni continuano ad esistere, diritti negati anche se riconosciuti come fondamentali.
Nel nostro ordinamento, oltre alla discriminazione diretta, vi è quella indiretta, si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari. Ebbene la prassi continua ad insegnare che debbano essere le donne a doversi sacrificare, a doversi far carico della casa, della famiglia e dei figli.

 Ciò che occorre è senz’altro una politica che stimoli l’informazione e la stampa a tenere sistematicamente conto della parità di genere, ma occorre anche indirizzare l’attenzione sull’istruzione perché si inizi, fin dalla più giovane età, un percorso educativo fondato sulla parità, al fine di eliminare gli stereotipi e determinare così una vera e propria modifica culturale. I rigidi ruoli di genere possono infatti ostacolare le scelte individuali e limitare il potenziale delle future donne e dei futuri uomini. L’ineguaglianza rappresenta, infatti, un peso per un’economia che ambisce ad essere intelligente, sostenibile e solidale e che intende conseguire elevati livelli di occupazione, produttività e coesione sociale. Il potenziale e i talenti delle donne devono essere utilizzati più largamente e più efficacemente.

CASO PRATICO

Nella vicenda in oggetto dunque, una  discriminazione di genere non si misurerebbe in termini meramente numerici sulla quantità dei lavoratori colpiti dallo svantaggio, bensì dal raffronto fra le concrete condizioni di parità di trattamento tra i due sessi.

Ecco allora che, dovendosi operare la comparazione percentuale tra i lavoratori dei diversi sessi all’interno della medesima fattispecie riguardante i prestatori part-time, il dato numerico, secondo cui l’azienda sanitaria occupa in netta prevalenza dipendenti di sesso femminile a tempo pieno, non escluderebbe perciò solo la possibilità di configurare una discriminazione di genere.

Sul punto, invero, risulta fondamentale l’apporto definitorio fornito dalla Corte di giustizia UE in relazione al lavoro part-time, proprio in considerazione del dato statistico e del fatto notorio secondo cui il lavoro part time occupa per la stragrande maggioranza donne, cosicché l’incidenza del dato femminile sul lavoro a tempo parziale permette di individuare una discriminazione di genere indiretta nel trattamento sfavorevole rappresentato dal conteggio proporzionato alla percentuale di orario ridotto ai fini dell’anzianità di servizio.

Tuttavia, la valenza potenzialmente discriminatoria deve necessariamente concretizzarsi, anche in termini comparativi e su base statistica, nella situazione specifica in contestazione, al fine di apprezzare l’effettiva configurabilità della censurata discriminazione.

Su tali presupposti, dunque, applicando al caso di specie il criterio comparativo nei termini indicati, non si apprezzerebbe una situazione di pregiudizio in sfavore delle donne lavoratrici in quanto tali, posta l’assoluta prevalenza di donne non solo fra le lavoratrici a tempo parziale ma anche fra le lavoratrici a tempo pieno, come correttamente rilevato dai giudici di merito sulla base della situazione effettuale accertata.