IL CASO DEL MESE – La reperibilità come orario di lavoro: giurisprudenza europea e di legittimità a confronto

Tizio, dipendente come vigile del fuoco, svolgeva turni di 24 ore, di cui 8 ore notturne in cui si teneva a disposizione per eventuali interventi antincendio, pernottando in alloggi di servizio. II lavoratore ricorreva in giudizio sostenendo che il periodo di reperibilità doveva essere considerato come orario di lavoro e non come periodo di riposo e, di conseguenza, rivendicava, per le ore notturne, il pagamento delle maggiorazioni previste per il lavoro straordinario, detratta l’indennità di pernottamento che aveva percepito.
Analizziamo la questione in oggetto alla luce dei risvolti giurisprudenziali in merito.


CONTESTO NORMATIVO


Nella vicenda oggetto di disamina, occorre preliminarmente una panoramica sui concetti di reperibilità e sulla distinzione tra orario di lavoro e periodo di riposo. La reperibilità è l’obbligo del lavoratore di porsi in condizione di essere prontamente rintracciato, fuori dal proprio orario di lavoro, in vista di una eventuale prestazione lavorativa e di raggiungere, in breve tempo, il luogo di lavoro per eseguire la prestazione richiesta.
La chiamata del datore di lavoro deve essere generalmente supportata da ragioni di urgenza e di indifferibilità.
La reperibilità consiste in una prestazione strumentale e accessoria rispetto alla prestazione di lavoro principale.
La reperibilità è istituto specifico di alcune tipologie di attività quali, a titolo esemplificativo, esercenti una professione sanitaria, lavoratori addetti alla manutenzione di impianti e macchinari (CCNL Cartai Industria), vigili del fuoco, ecc.
L’indennità di reperibilità è la controprestazione a carico del datore di lavoro data in cambio del servizio di reperibilità offerto dal lavoratore. Tale indennità è disciplinata, generalmente, dalla contrattazione collettiva.
Qualora la reperibilità fosse garantita durante il riposo settimanale, essendo qualitativamente diversa dalla prestazione di lavoro tout court, in quanto limita, senza escludere, il godimento del riposo stesso, la relativa indennità spettante al lavoratore reperibile consisterebbe in un corrispettivo quantitativamente diverso da quello previsto in caso di effettiva e piena prestazione lavorativa e non legittimerebbe, di conseguenza, la pretesa di un riposo compensativo.
Sul punto la giurisprudenza è, tuttavia, divisa.

La reperibilità svolta nel giorno destinato al riposo settimanale, non equivalendo a un’effettiva prestazione lavorativa, limita soltanto, senza escluderlo del tutto, il godimento del riposo stesso e comporta il diritto a un particolare trattamento economico aggiuntivo stabilito dalla contrattazione collettiva o, in mancanza, determinato dal Giudice. ( Trib. Milano 31/5/2010, Est. Lualdi, in D&L 2010, con nota di Elena Tanzarella, “La somministrazione illegittima nella PA e il conseguente risarcimento del danno”, 1085).

In materia di lavoro, il mero obbligo di reperibilità, anche nell’ipotesi in cui lo stesso cada in una giornata festiva o di riposo, non equivale a prestazione lavorativa; conseguentemente, in assenza di apposite previsioni contrattuali, esso non da diritto né ad un giorno di riposo compensativo, né ad un compenso equivalente a quello spettante in caso di svolgimento della prestazione lavorativa. (Trib. Genova, Sez. lavoro, 17/10/2008). Il mancato pieno godimento del riposo settimanale, determinato dalla necessità di essere reperibile in una giornata festiva o di riposo e dalla mancata fruizione del riposo compensativo, si pone in irrimediabile contrasto col principio costituzionale dell’irriducibile diritto del lavoratore al riposo settimanale (art. 36 Cost.), da fruirsi di regola in coincidenza della domenica (art. 2109 c.c.), per 24 ore consecutive; d’altra parte, il lavoratore ha diritto alla propria integrità psicofisica – bene garantito dalla Costituzione ex art. 32 -, la quale non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si collega alla dimensione stessa dell’individuo nell’ambito in cui esplica la propria personalità in tutti gli aspetti ad essa connessi.
Conseguentemente, anche la “reperibilità”, con le limitazioni che impone alla libertà personale e per il logorio psicofisico che produce, è sufficiente a configurare l’obbligo del datore di lavoro a risarcire il danno che consegue al lavoratore che presti il servizio di pronta disponibilità nel giorno di riposo settimanale, atteso che tale irrinunciabile diritto è qualificato dalla necessità, oltre che dalla ricostituzione delle energie biopsichiche del lavoratore, anche dalla esigenza di quest’ultimo di partecipare serenamente alle comuni forme di vita familiare e sociale, senza vincoli particolari. (App. Bari, Sez. lavoro, 02/02/2008).


IMPLICAZIONI


Nella questione oggetto di approfondimento, Tizio, dipendente come vigile del fuoco, svolgeva turni di 24 ore, di cui 8 ore notturne in cui si teneva a disposizione per eventuali interventi antincendio, pernottando in alloggi di servizio.
II lavoratore ricorreva in giudizio sostenendo che il periodo di reperibilità doveva essere considerato come orario di lavoro e non come periodo di riposo e, di conseguenza, rivendicava, per le ore notturne, il pagamento delle maggiorazioni previste per il lavoro straordinario, detratta l’indennità di pernottamento che aveva percepito.


Nel valutare il trattamento da attribuire al vigile del fuoco, andranno applicate le definizioni e le disposizioni della Direttiva europea, interpretate nel senso indicato dalla Corte di Giustizia.


La Corte di Giustizia chiamata ad esprimersi in un caso analogo ha chiarito che rientra nella nozione di “orario di lavoro”, ai sensi della Direttiva 2003/88, l’integralità dei periodi di guardia, compresi quelli di pronto intervento in regime di reperibilità, nel corso dei quali i vincoli imposti al lavoratore sono tali da incidere oggettivamente e in maniera molto significativa sulla facoltà, per

quest’ultimo, di gestire liberamente, durante suddetti periodi, il tempo in cui non è richiesta la sua attività professionale e di dedicare tale tempo ai propri interessi. Periodo di riposo, al contrario, va qualificato ogni periodo di guardia in cui i vincoli imposti (dalla disciplina dello Stato membro, da un contratto collettivo o dal datore di lavoro in forza del contratto di lavoro o del regolamento interno) non raggiungano un tale grado di intensità e consentano al lavoratore di gestire il suo tempo e di dedicarsi ai propri interessi senza grossi vincoli. A questo punto, la Corte di Giustizia compie una precisazione particolarmente importante, chiarendo che, in ogni caso, nel valutare la situazione, non possono essere considerati “vincoli imposti” tutte le difficoltà organizzative che sono conseguenza di elementi naturali o della libera scelta del lavoratore. Non può essere considerato un vincolo, ad esempio, la distanza considerevole che separa il domicilio liberamente scelto dal lavoratore dal luogo che costui deve essere in grado di raggiungere entro un certo termine nel corso del suo periodo di guardia. Il giudice deve verificare se le tempistiche che gli sono imposte dissuadono fortemente il lavoratore dal pianificare una qualsivoglia attività di svago, anche solo di breve durata.
In tal caso il periodo di guardia dovrà essere qualificato come orario di lavoro (C-344/19). Tale valutazione dovrà essere svolta sulla base di un’analisi concreta, che tenga conto anche di ogni altro vincolo imposto al lavoratore, nonché di eventuali agevolazioni che gli siano state accordate.


RISOLUZIONE SECONDO NORMA


Come abbiamo avuto modo di delineare nel corso dell’approfondimento esaminato il primo profilo, quello relativo alla distinzione tra orario di lavoro e tempo di riposo ai sensi della Direttiva 2003/88/CE, la questione dei periodi di guardia (o di reperibilità) non risulta, tuttavia, esaurita.
Il fatto che un determinato periodo debba essere qualificato come orario di lavoro, infatti, nulla dice circa il trattamento retributivo che dev’essere applicato al rapporto in quel lasso di tempo. La Direttiva europea, infatti, si limita a disciplinare taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro al fine di garantire la tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, cosicché, in linea di principio, essa non si applica alla retribuzione dei lavoratori”. Ne consegue che, superato il problema della distinzione tra orario di lavoro e periodo di riposo, la modalità di retribuzione dei lavoratori per i periodi di guardia non rientra nell’ambito della Direttiva 2003/88/CE, ma rientra nella diversa competenza delle disposizioni di diritto nazionale. La distinzione tra periodo di lavoro e periodo di riposo mantiene una rilevanza pregnante, in quanto, ai fini dell’applicazione della Direttiva 2003/88/CE, lascia impregiudicato il dovere dei datori di lavoro di rispettare gli obblighi specifici a essi incombenti al fine di tutelare la sicurezza e la salute dei loro dipendenti, anche in termini di rispetto dei necessari tempi di recupero per la salute psicofisica dei propri dipendenti. Ne consegue, secondo quanto precisato dalla Corte di Giustizia: che i datori di lavoro non possono istituire periodi di guardia talmente lunghi o frequenti da costituire un rischio per la sicurezza o la salute del lavoratore, a prescindere dal fatto che tali periodi siano qualificati come «periodi di riposo», ai sensi dell’articolo 2, punto 2, della direttiva 2003/88” (C 344/19).

RISOLUZIONE CASO PRATICO


Nella vicenda in oggetto dunque, sussiste una esatta applicazione dei principi enucleati dalla Corte di Giustizia europea nei casi sopra richiamati. Nel fare ciò, la Suprema Corte ha, peraltro, rammentato una propria precedente e analoga sentenza, a sua volta conforme all’indirizzo europeo, che era stata emessa in materia di pronta disponibilità dei dirigenti medici (Cassazione n. 34125/2019). In tale occasione, in merito alla distinzione tra orario di lavoro e tempo di riposo, era stato stabilito che: l’obbligo di essere fisicamente presente nel luogo stabilito dal datore di lavoro entro otto minuti sono di natura tale da limitare in modo oggettivo la possibilità del lavoratore di dedicarsi ai propri interessi personali e sociali sicché le ore di guardia devono essere considerate come orario di lavoro”. Nel caso in oggetto deve considerarsi fermo il dato della ricomprensione nell’orario di lavoro del periodo di guardia presso il datore di lavoro. Ciò in quanto nel corso di un periodo di guardia del genere, il lavoratore, tenuto a permanere sul luogo di lavoro all’immediata disposizione del suo datore di lavoro, deve restare lontano dal suo ambiente familiare e sociale e beneficia di una minore libertà di gestire il tempo in cui non è richiesta la sua attività professionale. Pertanto, l’integralità di siffatto periodo deve essere qualificata come “orario di lavoro”, ai sensi della direttiva 2003/88, a prescindere dalle prestazioni di lavoro realmente effettuate dal lavoratore nel corso di suddetto periodo. La fattispecie in esame rientra nelle ipotesi di periodo di guardia presso il datore di lavoro, da considerarsi, per le sue modalità, orario di lavoro, preso in considerazione da accordo collettivo che disciplina il rapporto di lavoro, ai fini della retribuzione, in maniera differente, deve essere inteso quale periodo durante il quale non viene di regola svolto alcun lavoro effettivo, rispetto ai periodi nel corso dei quali vengono realmente effettuate delle prestazioni di lavoro.