Comportamenti fraudolenti per assentarsi dal lavoro: legittimo il licenziamento

Tizio, direttore di un punto vendita di un ipermercato, senza avvisare il Responsabile, aveva ritardato la ripresa del lavoro dopo la pausa pranzo, per poi allontanarsi, in serata, dalla città sede del luogo di lavoro senza presentarsi al lavoro il giorno successivo invocando, telefonicamente, sopravvenuti impedimenti legati alla salute del coniuge e rassicurando, comunque, sulla possibilità di recarsi al lavoro in caso di necessità, lasciando dunque intendere di trovarsi in città. 

Il Responsabile del predetto ipermercato si rivolgeva dunque al suo legale di fiducia al fine di valutare conseguenze disciplinari a carico di Tizio.

CONTESTO NORMATIVO

Come noto, il lavoratore ha diritto ad assentarsi dal lavoro a fronte di ragioni che giustifichino tale sua assenza.

Le casistiche sono molteplici; tra le più frequenti, quali esempi, si riscontrano: − ferie; − permessi per riduzione di orario; − permessi ex L. 104/1992; − malattia, infortunio.

In tali situazioni, dunque, il lavoratore trova una palese giustificazione della sua assenza, che viene infatti sostenuta talora con l’erogazione dell’ordinaria retribuzione, ovvero con indennità a carico degli Istituti competenti e possibile integrazione datoriale.

Il problema nasce, invece, laddove il dipendente si renda assente dal lavoro senza fornire, ex ante o ex post, alcuna specifica giustificazione.

L’assenza ingiustificata, infatti, oltre a far perdere il diritto alla retribuzione, può essere causa di infrazione disciplinare, punibile, quindi, secondo le regole del Ccnl applicato, con sanzione conservativa, ovvero, nei casi più gravi, espulsiva.

Quest’ultima ipotesi viene normalmente regolata dal Ccnl stesso, laddove dispone che il protrarsi dell’assenza ingiustificata per un certo numero di giorni, di regola tra 3 e 5, può far scattare il procedimento disciplinare, a carico dal lavoratore, e infine, ove nelle more del procedimento non emerga alcun tipo di giustificazione, anche il recesso da parte datoriale. 

Un licenziamento, quindi, per giusta causa.

In simili situazioni, è dovere del datore di lavoro rispettare i dettami ex articolo 7 L. 300/1970, in tema di procedimento disciplinare; con ciò, senza tralasciare alcun dettaglio.

In tal senso, sia pur in sintesi, si richiama l’attenzione sulla lettera di apertura del procedimento e, in particolare, sul preciso dettaglio e sull’esaustività della contestazione di infrazione rilevata, di fatto immodificabile.

Oltre alla necessaria tempestività di tale intervento, rispetto al tempo dei fatti contestati, è di particolare rilievo anche la specifica indicazione circa le modalità e i tempi in cui il lavoratore potrà operare a propria difesa.

L’evadere, infatti, tale circostanza, dando modo al dipendente di offrire le proprie giustificazioni, è di vitale importanza per il corretto svolgimento di tutto l’iter.

Solo dopo aver sentito il lavoratore, o aver ricevuto suoi scritti difensivi, il datore potrà farsi una propria opinione, decidere e chiudere il procedimento, sanzionando o meno il soggetto interessato.

IMPLICAZIONI

Nella questione oggetto di approfondimento, Tizio, direttore di un punto vendita di un ipermercato, senza avvisare il Responsabile, aveva ritardato la ripresa del lavoro dopo la pausa pranzo, per poiallontanarsi, in serata, dalla città sede del luogo di lavoro senza presentarsi al lavoro il giorno

successivo invocando, telefonicamente, sopravvenuti impedimenti legati alla salute del coniuge e rassicurando, comunque, sulla possibilità di recarsi al lavoro in caso di necessità, lasciando dunque intendere di trovarsi in città.

A fronte di tale comportamento, il datore di lavoro può attivare il dovuto procedimento disciplinare, all’esito del quale può decidere di irrogare la sanzione del licenziamento per giusta causa.

Il dipendente, ponendo, anzitutto, in dubbio la proporzionalità della sanzione irrogata, potrebbe procedere facendo notare come il datore di lavoro avesse trascurato il fatto che il Ccnl applicato al rapporto di lavoro prevedesse la sanzione espulsiva solamente per i casi di assenza ingiustificata oltre 3 giorni nell’anno solare, mentre, nel caso specifico in discussione, l’assenza ingiustificata sarebbe stata di un solo giorno; tale situazione giuridica, dunque, sarebbe punibile, sempre secondo Tizio, con una mera sanzione conservativa.

Ed è questo il cuore della nostra analisi: andare a valutare se il dato oggettivo del disposto contrattuale, nell’ipotesi appena riportata, non consenta in via assoluta al datore di lavoro di andare a erogare, invece, la sanzione espulsiva.

A ben vedere, il motivo di doglianza del lavoratore può essere così ripartito: da una parte, una lamentata mancanza di proporzionalità tra violazione e sanzione; dall’altra, la statuizione della norma contrattuale circa una necessaria assenza di 3 giorni, nell’anno solare, quale causa giustificatrice del licenziamento.

RISOLUZIONE SECONDO NORMA

Come abbiamo avuto modo di delineare nel corso dell’approfondimento, l’attenzione, dunque, si sposta dal mero aspetto temporale dell’assenza, di un solo giorno, verso la situazione fattuale del concreto svolgimento di tale assenza, situazione contraddistinta da una condotta ritenuta, a tutti gli effetti, di “natura truffaldina”, ossia atta a nascondere al datore di lavoro l’effettivo comportamento che, evidentemente, il lavoratore era ben conscio essere tutt’altro che irreprensibile.

Tutto ciò con l’aggravante del ruolo ricoperto dal dipendente nell’organico aziendale, di direttore di un punto vendita.

Una valutazione, dunque, che investe differenti piani: quello della specifica azione illecita, minante in profondità il rapporto fiduciario col datore; quello della responsabilità specifica del soggetto, che va a incidere in maniera rilevante anche sul piano delle proporzionalità della sanzione irrogata.

Ecco, quindi, che la durata dell’assenza viene posta in secondo piano, emergendo, invece, con forza l’aspetto della truffa architettata dal lavoratore, tale da ledere, irrimediabilmente, il legame fiduciario con il proprio datore di lavoro.

Assurgono, dunque, in prima linea quei concetti di correttezza e buona fede che, per entrambe le parti, sono di fatto i pilastri del rapporto di lavoro subordinato.

La loro palese violazione quindi, ex articolo 2119, cod. civ., giustifica il recesso datoriale per giusta causa. In tale scenario, pertanto, le norme contrattuali cedono la scena, ponendosi la condotta del lavoratore al di fuori dell’osservanza dei leciti canoni di comportamento.

RISOLUZIONE CASO PRATICO

Nella vicenda in oggetto dunque, la via maestra rimane comunque quella della valutazione del disposto del Ccnl applicato al rapporto di lavoro.

La norma contrattuale, ove presente, ci espone, infatti, l’intento delle parti sociali nell’imprimere un disvalore massimo solo verso un’assenza che si prolunghi per un certo numero di giorni.

Al di sotto di tale soglia, è quindi opportuno operare con sanzione conservativa (ammonizione, multa), anche al fine di creare un precedente, favorevole in caso di recidiva.

Solo in certe casistiche estreme, come quella appena valutata, sarà tuttavia possibile oltrepassare la norma contrattuale, valutando, invece, il mero comportamento del lavoratore, non dimenticando, naturalmente, di procurarsi ogni prova oggettiva possibile riguardo alle azioni dallo stesso compiute.